Iniziando la sua visita di tre giorni a Pechino, il commissario al Commercio e vice di Ursula von der Leyen, è stato chiaro: le relazioni commerciali tra Unione Europea (UE) e Cina così come sono non vanno. Valdis Dombrovskis ha precisato che non ci sarebbe alcuna intenzione di tendere a un “decoupling”, cioè ad una separazione tra le due aree economiche. Tuttavia, chiede un riequilibrio. Ormai, eccepisce, la UE registra un deficit annuale con il Dragone nell’ordine dei 400 miliardi di euro all’anno.

Come risolvere l’inghippo? Chiederà al governo cinese di aprire alle aziende europee l’enorme mercato di 1,4 miliardi di consumatori, esattamente come da decenni fa il nostro continente con le aziende cinesi.

Iniziata post-globalizzazione

L’anno scorso, infatti, certifica l’Eurostat che la UE ha esportato in Cina merci per 230,3 miliardi e da essa ne ha importate per 626 miliardi. Il disavanzo commerciale è stato di 395,7 miliardi, superiore al 2,5% del PIL europeo. Non che il problema fosse ignoto in passato, semplicemente la politica ha latitato a lungo. In particolare, la Germania è stata e continua ad essere il principale sponsor delle relazioni con la Cina, intravedendo in quel mercato grosse opportunità di crescita per le sue aziende.

Pandemia e guerra hanno rimesso in discussione tutto. La globalizzazione come l’abbiamo conosciuta nei decenni passati è probabilmente già un ricordo. Tra catene di produzione rivelatesi eccessivamente lunghe ed esposte a inconvenienti e tensioni geopolitiche, i governi occidentali hanno ben compreso l’esigenza di un “reshoring”. Si tratta non di tornare ai mercati chiusi di un tempo, bensì di rimpatriare le produzioni strategiche per evitare un’eccessiva dipendenza da economie potenzialmente ostili.

Reset commerciale complicato

Sembrerebbe che finalmente la UE stia svegliandosi, ma le sue parole cozzano con i fatti. Mentre Bruxelles chiede a Pechino un riequilibrio delle relazioni commerciali, spinge per accelerare la transizione ecologica puntando sulle auto elettriche tout court.

Un processo che richiederà proprio maggiori importazioni dalla Cina, vuoi per la disponibilità di materie prime, vuoi anche perché sui processi di produzione gode già di un vantaggio competitivo, grazie anche ai grandi numeri.

Lacrime di coccodrillo, insomma. La svolta vera non c’è ancora. Bisognerà attendere le elezioni europee dell’anno prossimo per capire se un eventuale cambio della guardia alla guida della Commissione sarà conseguenza anche di un cambio di visione su temi come energia, commercio e geopolitica in generale. Difficile che avvengano grossi mutamenti, a causa degli equilibri politici fragili all’Europarlamento. Nessuno schieramento avrà quasi certamente la maggioranza assoluta per governare e serviranno continue mediazioni su ogni capitolo.

Cina farà orecchie da mercante?

C’è anche un fattore tempo a remare contro le richieste europee. L’economia in Cina è in forte rallentamento, non solamente strutturale. La congiuntura si mostra debole a causa dell’eccesso di investimenti effettuati negli ultimi quindici anni, il quale ha alimentato una potente bolla immobiliare con conseguenze disastrose per milioni di famiglie e per il tessuto bancario. I già bassi consumi interni rischiano di contrarsi. Impensabile per il momento che Pechino avalli un riequilibrio commerciale, quando deve puntare ancora di più sulle esportazioni per mitigare i rischi macro. Infine, il traballante governo Scholz avallerà sul serio un reset con il Dragone?

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