E se a Kiev fosse finita la globalizzazione? La domanda è più che lecita, anche perché non è la prima volta nella storia che ciò accade. La Rivoluzione Industriale aveva messo a disposizione tecnologie, grazie alle quali il mondo era diventato più piccolo, consentendo ai suoi abitanti di spostarsi più facilmente e velocemente. Tra la metà dell’Ottocento e il 1914 vi fu quella che oggi definiamo la prima ondata della globalizzazione. Dopodiché, la Grande Guerra fermò tutto. E fu così fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando la divisione del mondo in due blocchi rilanciò i commerci all’interno di ognuno di essi.

Iniziò la seconda ondata, seguita da una terza a partire dagli anni Ottanta e caratterizzata da una mobilità dei capitali quasi perfetta e dall’abbattimento delle barriere tariffarie e non.

In teoria, ancora oggi saremmo all’interno della terza fase della globalizzazione. In realtà, gli analisti tendono a concordare che qualcosa si sia rotto con la crisi finanziaria mondiale del 2008-’09. Le esportazioni nel 2008 arrivarono al massimo storico del 26,2% del PIL mondiale, mentre nel 2019, l’anno precedente alla pandemia, scendevano a meno del 22%. Questo significa che nel lungo decennio successivo al crac di Lehman Brothers, la crescita mondiale non era stata più trainata dagli interscambi commerciali.

Sanzioni occidentali per la guerra ucraina

La guerra ucraina rischia di accentuare un fenomeno già intravistosi con la “guerra dei dazi” tra USA e Cina, le prime due economie mondiali. Le sanzioni occidentali contro l’economia russa sono state volutamente durissime e stanno portando all’isolamento finanziario di Mosca. Gran parte delle riserve valutarie russe si trovano all’estero e sono state “congelate”, impedendo alla banca centrale di difendere appropriatamente il cambio. In effetti, il rublo è collassato fino al 40%. Per mitigare i rischi, l’istituto ha più che raddoppiato i tassi d’interesse dal 9,5% al 20% e imposto alcuni controlli sui capitali.

Tra l’altro, alle imprese è stato imposto di convertire in rubli almeno l’80% del fatturato realizzato all’estero.

Nel frattempo, le carte bancomat e di credito dei circuiti Visa e MasterCard non funzionano più in Russia. Sette banche domestiche sono state espulse dallo SWIFT, il sistema dei pagamenti internazionale. E sono decine e decine le multinazionali che hanno annunciato la sospensione delle attività nel paese, vuoi per paura di un eventuale embargo dell’Occidente, vuoi per dimostrare solidarietà al popolo ucraino. Diversi fondi d’investimento stanno liquidando le loro posizioni sul mercato russo, privandolo anche dei capitali passivi. La crisi è così forte, che la Russia si disconnetterà del tutto da internet entro fine settimana. Sta diventando persino molto difficile per Mosca vendere il suo petrolio all’estero, dato che nessuna nave-cisterna sta assumendosi il rischio di acquistarlo, temendo le sanzioni occidentali, ad oggi non dirette al comparto energetico.

La Russia è uscita nei fatti dal sistema finanziario e commerciale internazionale. Ma si rischia l’effetto domino. In primis, perché anche l’Europa sta ripensando alla globalizzazione. Ha compreso quanto sia importante l’indipendenza energetica e persino produttiva della generalità dei beni di consumo principali. Già con la pandemia, quando ci trovammo privi di mascherine e ventilatori polmonari, i governi s’interrogarono sull’opportunità di impedire certe delocalizzazioni “sensibili”. Adesso, i dubbi sono semplicemente stati rafforzati: se il nostro fornitore diventa un nemico geopolitico, come sarà possibile continuare a farci affari?

Fine terza ondata di globalizzazione

In buona sostanza, si stanno creando le condizioni per una globalizzazione più simile alla seconda ondata: produzioni in aree regionali omogenee dal punto di vista geopolitico ed economico. In pratica, gli stati in futuro potrebbero tornare a commerciare principalmente con altri dello stesso tenore di vita e appartenente alla medesima sfera d’influenza.

Per essere chiari, si starebbero ricreando blocchi contrapposti. Due di questi sono l’Occidente e l’Asia (Cina-India-Russia). Ad accelerare i piani, l’evidenza di quanto stia accadendo alla Russia con la guerra ucraina: Mosca sta andando in default non per assenza di mezzi, bensì per l’impossibilità di disporne a causa del “congelamento” delle sue riserve all’estero.

Stando così le cose, i capitali si muoveranno meno facilmente nei prossimi anni. Un ente cinese o del Medio Oriente o indiano non avrà certezza di poter disporre dei propri asset qualora il proprio paese entrasse in conflitto con quello di destinazione dei propri investimenti. E viceversa. La globalizzazione si fonda sul rispetto delle regole e sulla fiducia reciproca tra gli stati. In assenza anche solo di una di queste, la mobilità dei capitali appare impossibile. E con la guerra ucraina il mondo è diventato palesemente più rischioso per chi investe e fa affari fuori dalla sfera d’influenza.

La fine della globalizzazione come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 40 anni, specie con la caduta dei regimi comunisti dell’Est Europa e l’ingresso della Cina nel WTO, porterà a conseguenze drastiche sulle vite di tutti i giorni. Il fatto che si vada riducendo la concorrenza tra le imprese che producono potrebbe far pensare a vantaggi immediati in termini di livelli di occupazione e salari. Tuttavia, i costi di produzione lieviteranno e il potere d’acquisto scenderà. Forse, l’era dei beni di consumo “cheap” volge al termine.

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