Il Big Mac, il famoso panino della catena americana McDonald’s, compie 50 anni. Tanti ne sono passati da quando l’imprenditore italo-americano Jim Delligatti lo ha inserito nei menù di tutti i ristoranti della sua catena, facendone un successo mondiale. Oggi, di ristoranti McDonald’s in tutto il pianeta ne esistono ben 35.000, praticamente 1 ogni 200.000 abitanti, anche se il rapporto tra punti vendita e popolazione varia da stato in stato. In America, ad esempio, ne ve sono oltre 14.000, 1 ogni 23.000 abitanti, mentre in Italia ne troviamo 571, 1 ogni 106.000, molti meno dei 1.419 della Francia, la cui popolazione residente non è significativamente superiore alla nostra.

Perché vi parliamo del Big Mac? Perché in economia ha il suo perché.

Cambio euro-dollaro sottovalutato del 20%, ce lo dice il panino

Già decenni or sono, l’economista e Premio Nobel Milton Friedman osservava che non vi fosse stata mai una guerra tra stati con ristoranti McDonald’s aperti nei rispettivi territori. Facile risalire all’origine di questa felice scoperta: essendo la catena dei burger un esempio concreto di globalizzazione ad opera della multinazionale americana, gli stati che ospitano i suoi punti vendita fanno parte di quel mondo libero e liberale gravitante politicamente attorno agli USA, per cui omogenei tra loro sul piano degli interessi geo-strategici e culturali. Il discorso valeva, in particolare, ai tempi della Guerra Fredda, quando il mondo era diviso in blocchi, tra quello capitalista guidato dall’America e quello comunista assoggettato all’ex Urss. Non a caso, con il disgelo storico tra USA e Corea del Nord di questi mesi, il dittatore Kim Jong-Un ha fatto trapelare la volontà di consentire l’apertura di un ristorante fast food a Pyongyang, quasi a suggellare la fine delle ostilità con il simbolo del capitalismo.

Cosa ci spiega il Big Mac Index

Ma qui vi vogliamo parlare del Big Mac Index, un indicatore introdotto per la prima volta dall’Economist nel 1986 per cercare di capire il rapporto di cambio effettivo che dovrebbe esservi tra due valute.

Il ragionamento alla base è semplice: se due prodotti sono perfettamente comparabili tra di loro, dovrebbero costare grosso modo uguali. Se i prezzi sono differenti in due luoghi diversi, significa che diverso è il potere di acquisto tra le due realtà e, quindi, ciò dovrebbe essere rispecchiato dai tassi di cambio. Poiché i panini dei McDonald’s sono sostanzialmente uguali in tutto il mondo, dovrebbero registrare prezzi simili e tali da lasciarci capire quali sarebbero i tassi di cambio corretti sulla base dei fondamentali tra due valute.

Esempio: se un Big Mac costa 5 dollari negli USA e 4 euro nell’Eurozona, significa che 4 euro stanno comprando esattamente lo stesso bene per cui negli USA servono 5 dollari. In altre parole, il tasso di cambio euro-dollaro dovrebbe essere di 1,25 (5 dollari / 4 euro). Confrontando tali dati con i tassi di cambio effettivi vigenti sul mercato, si sarebbe in grado di capire se siamo dinnanzi a valute sopra- o sotto-valutate. Ogni anno, il Big Mac Index viene aggiornato e gli ultimi dati a cui fare riferimento risalgono all’inizio del 2018. Potremmo utilizzarli per cercare di capire quale sarebbe l’effettivo potere di acquisto nell’Eurozona e quali tassi di cambio contro il dollaro dovremmo attenderci tra i vari stati dell’area.

Cambio euro-dollaro giù con una crisi dell’economia americana 

Prendiamo il dato medio: nell’Eurozona, il prezzo medio di un Big Mac sarebbe (in euro) di 1,33 volte più basso che negli USA (in dollari). Dunque, il tasso di cambio euro-dollaro corretto, quello che rispecchierebbe e livellerebbe i differenti poteri di acquisto, sarebbe di 1,33. Considerando che attualmente siamo a poco meno di 1,18, possiamo ben affermare che l’euro sarebbe sottovalutato contro il dollaro di circa il 13%.

Tuttavia, la moneta unica non rispecchia una unica economia, bensì 19. E allora, cerchiamo di capire se e in che misura il potere di acquisto diverge da stato in stato e quale sarebbe per ciascuno il tasso di cambio corretto contro il dollaro. In Germania, un Big Mac costa il 35% in meno (sempre in euro) che negli USA (sempre in dollari), per cui i tedeschi dovrebbero avere un tasso di cambio contro il dollaro di 1,35, poco superiore a quello medio qui trovato. E l’Italia? Il nostro cambio corretto sarebbe di 1,25, il 6,5% più debole del dato medio, ma pur sempre il 6% più forte di quello attualmente vigente sul mercato. Stesso dato per la Francia, mentre la Spagna avrebbe bisogno di un cambio di 1,33, esattamente in linea con quello dell’area.

L’euro non è il problema dell’Italia

Dunque, se è vero che il cambio euro-dollaro per Italia e Francia dovrebbe essere meno forte di quello della Germania, resta indubbio che oggi tutte le grandi economie europee disporrebbero di un euro relativamente debole, chi più e chi meno rispetto ai propri fondamentali. Affermare, quindi, che l’Italia dovrebbe tornare alla lira per diventare più competitiva sarebbe scorretto, perché già oggi beneficerebbe di un cambio deprezzato, grazie all’allentamento monetario della BCE. E, però, l’analisi sarebbe più complicata di quanto appena esposto. Andando avanti nell’analisi dei dati, scopriamo che il Portogallo dovrebbe disporre di un cambio di 1,64 e la Grecia di 1,59. In altre parole, due tra le economie più deboli dell’area sarebbero ben più competitive della Germania e resisterebbero più dell’economia tedesca a un euro più forte. Ma vi pare vero? Per niente. Questo significa che il Big Mac Index è un buon indicatore, ma come tutti gli indicatori non perfetto.

Come la Germania fregò l’Italia pure con la lira negli anni Ottanta

Il prezzo di un burger del McDonald’s, infatti, rispecchia costi diversi da economia a economia, tra cui di beni “non tradable”, non esportabili, come gli affitti dei locali o gli stipendi dei lavoratori.

Non solo, diverse sono anche le preferenze dei consumatori. Se per un americano medio mangiare al fast food è il suo stile di vita, non lo è in Italia, patria della buona cucina. Lo dimostra anche il fatto che, quasi a parità di popolazione, abbiamo circa il 60% in meno di ristoranti McDonald’s che in Francia. Se questo è vero, significa che un americano sarebbe disposto a pagare un Big Mac più di quanto non faccia un italiano. Ecco spiegate le ragioni per cui il famoso panino costerebbe così poco in Portogallo e Grecia. Non è un fatto di maggiore competitività delle rispettive economie rispetto a quelle del resto dell’area, bensì di gusti e di costi. Peraltro, parliamo di paesi travolti dalla crisi del 2008, sebbene Lisbona sia tornata a crescere, mentre Atene ha perso da allora un quarto del suo pil e vive in condizioni socio-economiche ancora drammatiche per gran parte della sua popolazione.

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