Mario Draghi “sfiduciato” dentro la BCE, quando mancano appena tre settimane alla scadenza del suo mandato. Non poteva finire peggio per il governatore italiano, che pure si era creato una fama da banchiere centrale dalle doti straordinarie nell’affrontare di petto i problemi dell’Eurozona. Venerdì scorso, un documento contro la sua linea è stato pubblicato a firma di sei autorevoli ex esponenti dell’istituto: gli ex membri del board, Juergen Stark e Otmar Issing; gli ex governatori centrali di Austria, Francia, Olanda e Germania, rispettivamente Klaus Liebscher, Hervé Hannoun (già vice-governatore), Nout Wellink e Helmut Schlesinger.

E, malgrado l’assenza della firma, viene citato anche il nome dell’ex governatore francese Jacques de Larosière per aver condiviso il contenuto del “papello”.

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Cosa c’è scritto? In due pagine, viene espressa preoccupazione per la “crisi in corso della BCE” e il sospetto che le sue misure servano perlopiù per “proteggere i governi altamente indebitati dal rischio di un rialzo dei tassi”. Una sconfessione senza troppi giri di parole dell’era Draghi, giudicata sostanzialmente “non indipendente” rispetto alla sfera politica. Un documento esplosivo per le conseguenze che esso avrà sulla vita interna all’istituto, a partire dai primi passi che dovrà muovere Christine Lagarde dal mese prossimo, quando prenderà il posto dell’italiano.

Scontro tra nord e sud, “falchi” e “colombe”

Nelle ore precedenti, altri tre banchieri centrali avevano esternato le loro posizioni, stavolta in favore di Draghi: il governatore italiano Ignazio Visco, il vice-governatore spagnolo della BCE, Luis de Guindos, e il governatore finlandese Olli Rehn. Tutti e tre si sono espressi per una prosecuzione delle politiche di allentamento monetario, con de Guindos ad avere citato lo spauracchio della “giapponesissazione”, mentre il numero uno della Banca d’Italia ha messo in guardia dal rischio di perdere il controllo delle aspettative d’inflazione, specie in un contesto di alti debiti pubblici e privati.

Ad eccezione di Rehn, un nordico schierato sulle posizioni degli stati del sud, il senso di queste tensioni interne alla BCE sembra andare nella direzione di un acuirsi dello scontro tra nord e sud, tra “falchi” e “colombe”. Non che fosse mai stato sopito negli anni, ma almeno gli stimoli di Draghi erano stati largamente condivisi sulla percezione di un rischio deflazione e di crisi dell’euro altrimenti inevitabili. A distanza di quasi 5 anni dal varo del “quantitative easing”, però, gli effetti sull’Eurozona si sono mostrati molto modesti in termini di crescita del pil e di raggiungimento del target d’inflazione, mentre i rendimenti sovrani in tutta l’area sono crollati ai minimi storici, alimentati da una evidente bolla obbligazionaria pericolosissima nel caso di normalizzazione dei tassi e, soprattutto, ha adagiato i governi, inducendoli a non accelerare il passo sulle riforme e il risanamento fiscale.

La BCE vuole usare l’inflazione per sgonfiare i debiti, ma aspettative crollate ai minimi record

Rischio di ritorno alla crisi dell’euro

Pochi giorni fa, il membro esecutivo tedesco Sabine Lautenschlaeger si è dimesso in polemica con la linea ufficiale della BCE e con due anni e tre mesi di anticipo. Nessuno può più pensare che quello in corso sia un dibattito teorico e destinato a rimanere tale. Lo scontro è tra due linee di pensiero, tra quanti ritengono che l’euro sia uno spazio per soli stati virtuosi e governi responsabili e altri che si mostrano, più per interesse proprio che convinzione, disposti ad andare incontro alle necessità di rifinanziamento dei debiti da parte degli stati, a costi quanto più bassi possibili per renderli sostenibili.

Con Draghi, per otto anni ha vinto questa seconda impostazione, obtorto collo sostenuta dal governo tedesco per allontanare il rischio di rottura dell’area.

Con Lagarde, la continuità sarebbe assicurata sul piano delle convinzioni, ma queste voci sempre più fuori dal coro ed esternate con un vigore insolito lasciano pensare che puntino ad evitare che il mandato della francese sia in continuità con quello attuale. Dalla loro hanno la potente Bundesbank, che ha acquisito maggiore vigore, ora che il governo di Berlino si mostra politicamente più debole che mai e che i risultati stessi dell’era Draghi appaiono quanto meno discutibili.

Sarebbe il caso che iniziassimo ad essere più vigili come italiani, perché il primo effetto di un eventuale e sempre meno improbabile cambio di passo alla BCE sarebbe il ritorno alle tensioni finanziarie contro i BTp, la riproposizione della crisi dell’euro da dove nel 2012 Draghi la aveva lasciata con quel “whatever it takes” così provvidenziale, quanto improvvisato e fortuito. Tutta la sopravvivenza dell’euro di questi anni si è basata su una frase senza alcun fondamento solido concreto, come una costruzione gigantesca che si reggesse sulla sabbia; questione di fiducia tra mercati e banca centrale, che verrebbe meno in un attimo se la seconda mettesse in forse i paradigmi su cui ha impostato la sua azione negli ultimi anni. Nel migliore dei casi, aspettiamoci mercati erratici, in attesa di capire dove vogliano andare a parare nel concreto queste voci così ostili all’ottennato draghiano.

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