Brutte notizie per la BCE: le aspettative d’inflazione nell’Eurozona risultano scese ai minimi di sempre. Monitorando i contratti “5y5y Inflation Swap Rate”, che offrono una misura della stima del mercato dell’inflazione attesa a 5 anni tra 5 anni, vale a dire per il periodo 2024-2029, si ottiene che giovedì scorso si è scesi all’1,12%. Il target perseguito dalla BCE è “vicino, ma di poco inferiore al 2%” e viene disatteso da 6 anni e mezzo, perché è dagli inizi del 2013 che la crescita tendenziale media dei prezzi nell’area non si attesta stabilmente intorno al 2%.

Un problema per Francoforte, perché ne minaccia la credibilità. E il fatto curioso, nonché preoccupante per l’istituto, è che queste aspettative stiano scivolando ulteriormente dopo il lancio degli ennesimi stimoli monetari, giudicati “eccessivi” da parte del board stesso, raccogliendo critiche forti in Germania, dove la componente esecutiva Sabine Lautenschlaeger si è persino dimessa in polemica con le politiche praticate dal governatore uscente Mario Draghi.

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Le aspettative d’inflazione risentono certamente dell’andamento del petrolio, come dimostra il grafico di cui sotto. In più, la domanda interna nell’area resta debole, a causa di redditi stagnanti, specie nel Sud Europa, dove gli effetti della crisi del 2008 si sono avvertiti peggio e i tassi di disoccupazione risultano più alti, ancora decisamente a doppia cifra in Spagna e Grecia e poco sotto al 10% in Italia.

Che l’inflazione sia un male, una “tassa occulta” su risparmi e redditi lo sappiamo da sempre e per questo le banche centrali la combattono per statuto, anche se si intestardiscono a volerne un po’ per paura che altrimenti l’economia scivoli in deflazione, cioè che i prezzi inizino a scendere, mandando in malora consumi e produzione. Ma il vero timore delle banche centrali, BCE in testa, riguarderebbe i debiti.

Proprio giovedì, mentre i contratti swap segnalavano i record minimi d’inflazione attesa nell’area, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, difendeva le politiche di Draghi dagli attacchi dei “falchi”, sostenendo che “non possiamo permetterci di perdere il controllo delle aspettative d’inflazione” e aggiungendo che i rischi di deflazione siano inaccettabili, “specie in una situazione di alti debiti pubblici e privati”.

Inflazione per abbattere i debiti

Ed ecco svelato l’arcano. L’inflazione per la BCE è diventata un’ossessione per le conseguenze positive che essa comporta sui livelli di indebitamento. Vi facciamo un esempio. Immaginate che l’Italia smetta di fare debiti da qui a 10 anni e che cresca al ritmo dell’1% all’anno. A questo punto, scontiamo due scenari: uno con inflazione zero e l’altro con inflazione al 2%. Nel primo caso, il rapporto debito pubblico/pil tra 10 anni scenderebbe a poco meno del 120%, nel secondo sotto il 100%, anzi anche meno, considerando che uno degli effetti dell’inflazione consiste nel fare aumentare i redditi nominali, per cui anche le entrate per via del “fiscal drag”.

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Dunque, comportandosi esattamente allo stesso modo, i governi riuscirebbero a sdebitare di più l’Italia solo grazie all’inflazione. Lo stesso accadrebbe nel settore privato, a discapito ovviamente dei creditori. Del resto, due sono sempre state la strade dei governi per sdebitarsi: ristrutturazione o monetizzazione. Ad esempio, l’Italia ha visto crollare il suo rapporto debito/pil dal 118% del 1943 al 24% del 1946 per effetto dell’esplosione dell’inflazione, alimentata dal crollo della produzione industriale dovuto alle devastazioni belliche. E la BCE sa che senza un po’ d’inflazione, ridurre il grado d’indebitamento pubblico in Italia e privato nel Nord Europa sarebbe molto difficile e con il rialzo dei tassi in futuro si rischierebbe grosso.

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