Christian Sewing ha deciso di tagliare la testa al toro e dopo che il titolo un mese fa era crollato ai minimi di sempre, scendendo sotto i 6 euro, ha preso atto della necessità di varare un maxi-piano di ristrutturazione per Deutsche Bank, il colosso bancario tedesco dai piedi di argilla. Per questo, nel fine settimana il ceo ha annunciato la riduzione di 18.000 posti di lavoro entro il 2022, un quinto del totale, concentrata tra i manager e il comparto “investment banking”, quello che nei fatti era diventato il “core” business della banca numero uno in Germania, ma anche la sua zavorra.

Per area geografica, i tagli dovrebbero riguardare perlopiù Europa e Asia, ma non sarebbero toccati i livelli occupazionali delle attività “core” in Germania, Italia, Francia e Spagna. La ristrutturazione punta a cedere attività riguardanti l’equity, quelle del mercato a reddito fisso e della cosiddetta finanza strutturata per un controvalore complessivo di 74 miliardi di euro. Parliamo di quel segmento che ha reso celebre Deutsche Bank nel mondo negli ultimi due decenni, quando è riuscita ad uscire fuori dalla sua dimensione regionale e tipicamente bancaria, trasformandosi in un colosso dedito alla speculazione finanziaria da un lato e alla consulenza per le grandi operazioni di “merging and acquisitions” dall’altro.

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I numeri del gigante fragile

In sostanza, viene abbandonato il sogno sin qui tanto ambito di diventare un gigante stabile nel panorama dell'”investment banking”, dovendo fare i conti con alcune carenze strutturali e gestionali anche abbastanza imbarazzanti. Ad esempio, a fronte di assets per 1.500 miliardi, circa il 45% del pil tedesco, il valore nozionale dei derivati in pancia ammontano a 48.000 miliardi, anche se nettati crollano ad appena 20 miliardi, pur facendo paura allo stesso governo tedesco per il loro possibile impatto devastante sull’economia nazionale.

Il rapporto tra costi e ricavi supera il 93% e l’obiettivo di centrare il 65% nel medio termine appariva fino all’annuncio della maxi-ristrutturazione ormai velleitario. La cessione delle attività in bonis e in perdita avverrà tramite la creazione di un’apposita “bad bank”. Complessivamente, i costi del piano ammonterebbero a 7,4 miliardi e impatterebbero negativamente sul capitale primario, il CET 1, facendolo scendere dal 13,7% al 12,5%, restando comunque elevato. Un paio di mesi fa, falliva la fusione tentata con Commerzbank, anche a causa dei costi sociali elevati conseguenti all’operazione, stimati in almeno 30.000 posti di lavoro in meno in Germania. Troppi per il governo, che non avrebbe dato il placet all’integrazione.

Il ritorno alle origini per Deutsche Bank si rivela, quindi, un atto obbligato per sfuggire al rischio di un vero collasso. La banca è stata al centro di diverse indagini in Europa e in America e complessivamente nell’ultimo decennio ha pagato multe per 17 miliardi di euro, tra cui 7,2 miliardi di dollari concordati con il Dipartimento di Giustizia USA per condotta scorretta sulla vendita agli investitori dei bond coperti da ipoteche immobiliari, 630 milioni per riciclaggio di denaro dalla Russia e altri 2,5 miliardi per avere manipolato il mercato sulla fissazione dei tassi d’interesse.

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Sistema bancario tedesco opaco

Lo smaltimento del ramo investimenti è stato auspicato da sempre dal governo di Berlino, ma adesso i timori tra i vertici della stessa banca consistono nel minore interesse che susciterebbe il suo business, una volta che ai clienti non sarà più offerto il pacchetto completo dei servizi. In altre parole, negli anni l’istituto rischia di vedere scemare anche l’appeal delle sue attività “core”. Per la Germania, significherebbe perdere l’unico grande campione bancario nel panorama internazionale, il quale diverrebbe ancora più scalabile, specie dopo essere depurato dalle attività rischiose.

Da mesi, poi, la stessa Commerzbank non riesce a trovare un pretendente straniero, con Unicredit ad essersi apparentemente fatta indietro e l’olandese ING ad essersela data a gambe, dopo avere aperto il dossier.

Le banche tedesche sono tutt’altro che punta di diamante per l’economia domestica, rivelandosi poco competitive, non sane e spesso dalla condotta opaca o dall’illegalità accertata. Un pessimo biglietto da visita per un paese, che pure ha imposto al resto dell’Eurozona il “bail-in” sui timori che i contribuenti tedeschi venissero prima o poi chiamati a salvare con i soldi delle loro tasse istituti stranieri. A conti fatti, più probabile che accada il contrario. E proprio i tassi negativi aggravano la crisi del sistema bancario teutonico, che dispone di liquidità in eccesso per diverse centinaia di miliardi, di cui un’ottantina della sola Deutsche Bank, su cui gravano i costi imposti dalla BCE sui depositi “overnight”, già al -0,4% e che presto potrebbero essere ulteriormente abbassati, paventando per gli istituti un periodo più prolungato di bassi tassi, a discapito dei margini.

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