A forza di girare pellicole votate al catastrofismo in quantità industriale, gli americani sembrano averci preso gusto anche nella realtà a combinare enormi pasticci. E fa senso ascoltare il segretario al Tesoro, Janet Yellen, la quale avverte che gli Stati Uniti andranno in default dall’1 giugno se il Congresso non autorizzerà l’innalzamento al tetto sul debito (“debt ceiling”). La cifra che gira da mesi nel dibattito pubblico è di 31.400 miliardi di dollari. Tra un paio di settimane, la superpotenza americana avrà raggiunto tale mole di debito e non potrà farne di altri.

A meno che Camera dei Rappresentanti e Senato non trovino un accordo con la Casa Bianca per alzare il limite autorizzato.

Cos’è questa storia del tetto sul debito USA

Il fatto è che la Camera è in mano ai repubblicani, mentre il presidente Joe Biden è democratico e il suo partito controlla solo il Senato dopo le elezioni di metà mandato nel novembre scorso. Queste diatribe non sono una novità a Washington. Ogni volta che Congresso e Casa Bianca sono di due colori politici diversi, scattano trattative estenuanti a ridosso del raggiungimento del tetto sul debito autorizzato. E ogni volta gli Stati Uniti sfiorano il default. OK, solo “tecnico”, nel senso che eventualmente Zio Sam smetterebbe di pagare i creditori finanziari non per assenza di risorse, bensì per una limitazione legale.

Ma occhio a minimizzare quanto potrebbe accadere da qui a pochi giorni. Perché analisti e investitori avvertono da tempo che “default è default”. Se qualcuno immagina che gli Stati Uniti non rimborsino una scadenza e i mercati reagiscano con una risata, ha sbagliato grossolanamente i calcoli. Le tensioni ci sono già da settimane e sono destinate ad accentuarsi con l’avvicinarsi della “deadline” prospettata dal Tesoro. Non esiste una data certa in cui gli Stati Uniti andrebbero in default. Molto dipenderebbe anche dal gettito fiscale.

Di recente ha sorpreso positivamente e ciò ha fatto guadagnare diverse settimane di tempo alle parti per trovare un accordo.

Nel 2011 persa tripla A sui T-bond

Da una parte c’è Joe Biden, dall’altro lato del tavolo lo speaker alla Camera, Kevin McKarthy. Questi è pressato dalla base e dall’ex presidente Donald Trump, il quale ha fatto appello alla destra per far scattare il default negli Stati Uniti, anziché accordarsi per continuare a dilatare la spesa pubblica. Questo gioco a tirare la corda fino a un attimo prima che si spezzi (“brinkmanship” nel linguaggio anglosassone) si è disputato nell’estate del 2011. Per noi italiani sarà ricordato sempre come un periodo infausto, dato che in quei mesi esplose la crisi dello spread. Neppure a Washington non andò benissimo, visto che all’ultimo secondo l’amministrazione Obama raggiunse un’intesa con il Congresso a maggioranza repubblicana, ma ciò non evitò il declassamento del rating ad opera di S&P da AAA ad AA+. Gli Stati Uniti persero una prestigiosa tripla A per avere pasticciato su un fatto serio.

Come dribblare un mancato accordo tra Congresso e Casa Bianca

Potrebbe accadere di nuovo. Stavolta, forse, ad opera di Fitch, l’unica delle tre maggiori agenzie ad avere un outlook “negativo” sul debito pubblico americano. Perché è vero che qui non si tratta di un’economia in preda a una vera crisi fiscale, ma d’altra parte non è rassicurante uno stato incapace di accordarsi per permettere il buon funzionamento della macchina pubblica. La verità è che quasi certamente il default negli Stati Uniti non ci sarà. Lo scenario di base è che i repubblicani si mostrino soddisfatti di un accordo “imposto” alla Casa Bianca appena in tempo per evitare conseguenze irreversibili. La solita sceneggiata che ha stancato gli elettori dei due schieramenti e che non ha impedito il boom del debito negli ultimi quindici anni.

Ammesso che ciò non accada, orde di costituzionalisti ritengono che il presidente avrebbe poteri per evitare di fallire sul debito. La Costituzione americana sarebbe chiara circa il fatto che il governo debba preservare il buon nome del dollaro e che ciò consenta al potere esecutivo di agire anche in assenza di un accordo per ripagare i debiti. Tecnicamente, poi, emettere un debito per l’esatto ammontare di un debito in scadenza non ne aumenta le dimensioni. Il punto è che ciò limiterebbe le nuove emissioni alle scadenze e non consentirebbe allo stato americano di finanziare l’ancora enorme deficit fiscale. Servirebbero drastici tagli alla spesa e/o aumenti delle imposte per fare quadrare i conti pubblici.

L’escamotage della “truffa”

Infine, c’è la storia a metà tra il serio e il tragico della moneta di platino da 1.000 miliardi di dollari. La conierebbe il Tesoro – ma Yellen è contraria – e la consegnerebbe alla Federal Reserve in cambio di liquidità per un ammontare di pari valore (fittizio). A parte che sarebbe una trovata da far scappare anche i migranti in arrivo dal Messico, in una fase di alta inflazione tale sciocchezza finirebbe per destabilizzare i prezzi al consumo. Ce la vedete Washington a trasformarsi in una Caracas sotto Nicolas Maduro?

Default Stati Uniti l’1 giugno, c’è poco da scherzare

Sceneggiate o meno, il default degli Stati Uniti vero o presunto affievolisce il gradimento e la fiducia verso il dollaro. E in Asia i cinesi non aspettano altro. Se il 2011 è stato un esempio, poi, ci sarebbero cattive notizie anche per altri debitori pesanti come l’Italia. I mercati si rifugerebbero nei safe asset e venderebbero titoli come i BTp. Paradosso vuole, però, che acquisterebbero con ogni probabilità ancora più T-bond, i titoli di stato americani. Avvenne così nell’estate di una dozzina di anni fa. Certo, allora il quadro geopolitico era diverso e le stesse condizioni monetarie più espansive.

Allora come ora, poi, il prezzo dell’oro sta schizzando alle stelle. I capitali già si mettono in salvo.

Una conseguenza apparentemente favorevole a stati come l’Italia sarebbe il ritorno della FED sul mercato sovrano per acquistare T-bond e calmierare così le tensioni finanziarie. Ciò avrebbe effetti positivi anche sui rendimenti nell’Area Euro. Praticamente, lo spettro del default negli Stati Uniti finirebbe per paradosso per favorire il restringimento degli spread, anche se in prima battuta molto probabilmente li amplierebbe per le ragioni sopra esposte. Infine, c’è da scommettere che un fatto così grave deprimerebbe i prezzi delle materie prime. C’è da poco da scherzare o gioire, in ogni caso. L’evento scuoterebbe i mercati mondiali e minaccerebbe la ripresa dell’economia dopo la pandemia. Sperando che a Washington facciamo come a Hollywood, dove l’eroe pacchiano di turno finisce per salvare il mondo a un millesimo di secondo dalla fine.

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