Il debito pubblico italiano ha concluso il 2019 a 2.409 miliardi di euro. In attesa dei dati definitivi sul pil, dovrebbe essersi attestato sopra il 135%, toccando un nuovo massimo, pur scontando gli oltre 58 miliardi di aggravio contabile, derivanti dal ricalcolo effettuato nello scorso anno per adeguarsi alle richieste dell’ufficio statistico dell’Unione Europea. E l’Istat ieri ha diramato il dato sull’avanzo primario, cresciuto nel corso del 2019 all’1,7% del pil, il livello più alto dal 2013. Nel 2018, si era fermato all’1,5%.

Debito pubblico italiano 2019: ecco le curiosità

L’avanzo primario capta il saldo dei conti pubblici, ad esclusione della spesa per gli interessi sul debito. Dal 1992, l’Italia ha sempre chiuso il bilancio con un saldo primario in attivo, tranne nel 2009, anno orribile della crisi finanziaria mondiale, quando ha segnato un -0,9%. E l’anno successivo, si riportava esattamente a zero. Nessun altro grande stato in Europa, e non solo, ha fatto così bene per un periodo così lungo, nemmeno l’austera Germania. Chiudere i conti pubblici con un avanzo primario significa spendere meno di quanto s’incassi, cioè tassare i cittadini in eccesso rispetto ai servizi loro erogati.

Malgrado questi enormi sacrifici compiuti dalla fine della Prima Repubblica, i benefici continuano a non vedersi. Nel grafico di sotto, vi proponiamo l’andamento fiscale italiano dell’ultimo decennio (2010-2019), quello successivo alla grande crisi globale del 2008-’09. In esso notiamo come l’Italia abbia continuato a fare la formica, ogni anno spendendo meno delle entrate, al netto degli interessi. Tuttavia, una volta che questi sono entrati nel computo totale, il risultato finale è stato sempre negativo, cioè abbiamo sempre chiuso i bilanci in deficit, pur relativamente contenuti.

 

Il peso soffocante degli interessi

Questo significa che il peso degli interessi ha continuato a mostrarsi superiore a quello dei sacrifici compiuti. Nel decennio, infatti, abbiamo registrato un avanzo primario cumulato di quasi 250 miliardi di euro, a fronte del quale abbiamo speso oltre 715 miliardi in interessi sul debito.

Ne è derivato un deficit cumulato di circa 470 miliardi, cioè una ulteriore esplosione del debito pubblico, passato dal poco più del 100% del pil del periodo immediatamente precedente la crisi all’oltre 135% attuale. Mediamente, l’avanzo primario si è attestato a quasi l’1,5% del pil, ma la spesa per gli interessi l’ha surclassato con un pesante 4,2%.

E dire che nel frattempo, grazie alla BCE, il peso degli interessi si è di molto ridotto. Lo scorso anno, tanto per fare un esempio, il debito pubblico ha inciso per un interesse medio del 2,3%, mentre nel 2012 superava il 5%. E considerate che nel frattempo l’entità dello stock è cresciuto di quasi 10 punti rispetto al pil. La politica monetaria ultra-espansiva di Francoforte, tra tassi azzerati, acquisti dei bond e liquidità iniettata a fiume in favore delle banche dell’area, ha compresso i rendimenti sovrani, riducendo il costo delle nuove emissioni. Senza questo toccasana, gli interessi avrebbero assorbito miliardi di nuove risorse, per cui avremmo dovuto stringere ancora di più la cinghia e probabilmente non sarebbe stato nemmeno sufficiente, perché il debito sarebbe cresciuto ancora più velocemente rispetto al pil, tra deficit più alto e flessione ulteriore della già debolissima crescita economica.

La corsa sfrenata del debito pubblico italiano con queste cifre allarmanti

La difficile via d’uscita

Per arrestare la corsa del debito, sarebbe necessario aumentare l’avanzo primario di un altro punto del pil. Ma la matematica applicata all’economia non funziona sempre in maniera automatica. L’aumento del surplus fiscale implicherebbe il taglio della spesa pubblica e/o l’aumento delle entrate (più tasse), finendo per deprimere il pil, cioè produzione, consumi e occupazione, con il risultato che il gettito fiscale calerebbe e il rapporto debito/pil salirebbe.

L’unica alternativa praticabile, a parte confidare sulla leva monetaria anche per i prossimi anni, consiste nel varare alcune riforme pro-crescita senza costi per il bilancio, come liberalizzazioni, privatizzazioni, il taglio delle tasse coperto finanziariamente e la riqualificazione della spesa pubblica, trasferendo risorse dal comparto corrente a quello per gli investimenti.

Solo accelerando il tasso di crescita, il rapporto debito/pil inizierebbe ad arretrare per due ragioni: il denominatore accelererebbe e il rischio sovrano percepito si abbasserebbe, spingendo il mercato a pretendere rendimenti più bassi dai nostri BTp. Il fatto che l’apertura del cantiere per le riforme venga annunciata da anni, se non decenni, senza venirne mai avviare seriamente i lavori, complice la durata media infima dei nostri governi, ci fa capire quanto la realtà sia molto più complicata e le prospettive per la sostenibilità del nostro debito sempre meno incoraggianti.

Tassi a zero a lungo o austerità fiscale

[email protected]