Il capo-economista della BCE, Peter Praet, parla oggi di segnali di avvicinamento dell’inflazione nell’Eurozona verso il target (di poco inferiore al 2%). A maggio, la crescita annua dei prezzi nell’area è stata dell’1,9%, in netta accelerazione dal +1,2% di aprile, anche se al netto della componente energetica, l’inflazione di fondo resta all’1,1%, pur anch’essa in aumento dallo 0,7% del mese precedente. Per questo, gli analisti e il mercato stanno iniziando a scontare l’annuncio della fine del “quantitative easing” da parte di Francoforte al board di Riga del prossimo 14 giugno o a quello casalingo di fine luglio.

E già ci si immagina un primo rialzo dei tassi per la metà dell’anno prossimo, in anticipo di qualche mese rispetto alle aspettative sin qui maturate.

Cosa può fare la BCE di Draghi per evitare che la crisi dei BTp travolga l’euro?

Il mutamento di politica monetaria non poteva avvenire in un fase più delicata per l’Eurozona. Il governo italiano di Giuseppe Conte, sostenuto da Movimento 5 Stelle e Lega, sfida apertamente Bruxelles sui capisaldi su cui si fonda l’unione monetaria, ovvero sulla stabilità dei conti pubblici, richiedendo margini di manovra a sostegno della crescita economica. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha riconosciuto che l’Italia sia stata “abbandonata” sulla crisi dei migranti esplosa a seguito del caos in Libia e al contempo ha aperto a un fondo europeo di investimenti “per decine di miliardi di euro”, in grado di dirottare risorse presso le economie deboli dell’area. Respinta, invece, l’ipotesi di trasformare l’Eurozona in una “unione di debiti” (“Schuldenunion”).

E queste ultime parole esprimono tutta la preoccupazione e l’ira imperanti in Germania, dove ben 154 economisti hanno preso carta e penna e firmato nei giorni scorsi un appello alla cancelliera, affinché si ponga fine a quelle che considerano follie, come l’acquisto di titoli di stato da parte della BCE e la “continua concessione di linee di credito” alle economie più deboli dell’area, richiedendo che gli squilibri interni vengano risolti solo tramite riforme strutturali.

Ma di quali crediti parlano gli economisti tedeschi?

Cos’è e come funziona il Target 2

Il riferimento è al Target 2, il sistema dei pagamenti della BCE tra le economie dell’Eurozona. Facciamo una premessa: quando uno stato commercia con un altro stato, si ha un flusso di denaro che transita dall’acquirente al venditore. Esempio: un residente inglese compra un’auto americana. Affinché l’operazione sia possibile, risulta necessario che il primo ottenga dollari (in cambio di sterline e ai tassi di cambio vigenti) dalla Banca d’Inghilterra, che entreranno negli USA. Viceversa, se fosse un americano ad acquistare merci inglesi, vi sarebbe domanda di sterline e offerta di dollari. Questo meccanismo non vale tra i membri dell’Eurozona, essendo unica la moneta adottata. Pertanto, in assenza di tassi di cambio che fungano da riequilibrio tra le valute e, quindi, tra i flussi commerciali e finanziari, diventa necessario dar vita a un sistema di pagamenti, che eviti, ad esempio, che la Grecia rimanga a corto di euro e non possa più così acquistare merci tedesche, olandesi, italiane, etc.

Il Target 2 funziona così: quando l’ordine di acquisto di un bene, servizio o asset finanziario viene impartito tra due stati dell’area, la BCE eroga un credito alla banca centrale dello stato in cui avviene l’acquisto e lo segna all’attivo di quella dello stato in cui avviene la vendita. Nei bilanci delle banche centrali, quindi, si hanno saldi attivi o negativi, che rispecchiano rispettivamente posizioni creditorie e debitorie nei confronti del resto dell’area. Ora, l’Italia ad aprile registrava un saldo passivo di 426,1 miliardi, mentre la Germania uno attivo di 902,4 miliardi.

Si tratta di somme “dormienti”, nel senso che la BCE non prevede un limite temporale entro cui vanno saldate e né alcun interesse in favore degli istituti creditori. Tuttavia, ha precisato il governatore Mario Draghi lo scorso anno, rispondendo a una interrogazione di due eurodeputati italiani, nel caso in cui uno stato uscisse dall’euro, dovrebbe regolare i saldi all’istante.

Che cosa significa? Se Roma oggi decidesse di tornare alla lira, la Banca d’Italia dovrebbe pagare i 426 miliardi di debiti nei confronti del resto dell’area. Viceversa, se ad uscire fosse la Germania, avrebbe titolo per reclamare il pagamento degli oltre 900 miliardi sin qui accumulati come crediti. Soldi, che dovrebbero sborsare le altre banche centrali, in base alle posizioni bilaterali detenute. Ora, proprio a questo fa riferimento la lettera degli economisti tedeschi, ovvero all’ipotesi che Berlino, intuendo che l’euro così com’è e come desiderato dalla Germania non si regge più in piedi, prima che la situazioni precipiti e qualcuno provochi la rottura dell’unione monetaria, torni al marco e faccia cassa con un importo, che sarebbe equivalente a circa il 30% del pil nazionale.

Il piano B della Germania: sì all’uscita dall’euro, ma alle sue condizioni

Davvero la Germania scapperebbe con la cassa?

In teoria, sarebbe meglio per tutti se, ammesso che l’integrità dell’Eurozona debba venire meno, a uscirsene fosse la Germania, in quanto l’economia tedesca si mostra forte e resistente a una simile onda d’urto ed essendo creditrice, subirebbe un impatto di gran lunga meno negativo rispetto ai partner, anzi probabilmente non patirebbe affatto dall’uscita dell’euro. Del resto, i suoi maxi-saldi attivi riflettono esportazioni nette di beni, servizi e capitali, mentre i nostri saldi in profondo rosso sono la spia di copiose vendite di BTp tramite il QE negli ultimi anni e, quindi, della nostra carente posizione finanziaria con il resto dell’Eurozona.

Prima del 2008, infatti, Bankitalia registrava al suo attivo un saldo Target 2 per decine di miliardi, grazie ai capitali attratti dalla nostra economia.

Ora, pur essendo teoricamente capaci le banche centrali di regolare in tempi brevi cifre così stratosferiche, potendo finanche operare con un patrimonio netto negativo, non sembra nemmeno realistico pensare che la Germania se ne uscirebbe dall’euro portandosi 900 miliardi e rotti. Verosimile, invece, che al solo pensiero di uno scenario siffatto si scateni una tempesta finanziaria, tale da rendere remote le probabilità che i saldi vengano regolati. Stiamo parlando, cioè, di un sistema di pagamenti virtuale e che, se testato, potrebbe rivelarsi del tutto privo di corrispondenza reale. Anche perché i debiti e i crediti di cui stiamo parlando non sono effettivamente tali, almeno non tra le economie, bensì rappresentano solo poste di bilancio degli istituti centrali. Quando acquisto un’auto tedesca, tanto per essere chiari, la pago in euro sonanti, per cui non sto comprando a debito. La casa automobilistica in Germania ha già ricevuto il denaro e, pertanto, non vanta crediti tra quei 900 miliardi di cui sopra.

I debiti sono di Bankitalia, Banca di Francia, etc., mentre i crediti di uno sparuto gruppo di banche centrali, tra cui spicca per preponderanza quasi totale quella tedesca. L’immagine, però, che ai tedeschi si rischia di far passare è quella di una Germania che abbia prestato denaro agli altri stati dell’Eurozona e che adesso lo reclamerebbe giustamente indietro. Se da un lato appare deprecabile un certo euro-scetticismo d’accatto nel sud Europa, che fa della moneta unica l’oggetto delle proprie invettive per proiettare su Bruxelles e Berlino i fallimenti dell’azione politica negli stati del Mediterraneo, non meno irritante si mostra il tentativo di lanciare messaggi altrettanto sbagliati nella prima economia europea, tanto che il settimanale “Der Spiegel” è potuto arrivare a scrivere che noi italiani saremmo “peggio dei mendicanti, perché questi almeno dicono grazie”. Ma chi ha mai in Italia ricevuto un solo euro dalla Germania?

Ecco il piano europeo contro una nuova tempesta finanziaria

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