Banca Carige è stata ieri sera ufficialmente salvata dallo stato italiano con un Consiglio dei ministri straordinario durato appena mezz’ora, il quale ha garantito all’istituto ligure la copertura delle emissioni obbligazionarie e di ogni altro prestito eventualmente erogato discrezionalmente dalla Banca d’Italia. Inoltre, nel caso in cui i commissari ne facessero richiesta, lo stato provvederà a una ricapitalizzazione precauzionale, di fatto diventandone azionista come con MPS. Si tratterebbe, però, di un’ipotesi estrema e volta solo a rassicurare il mercato e si concretizzerebbe, semmai, nel caso in cui Carige non fosse in grado né di ricapitalizzarsi per conto proprio, né di trovare un pretendente in Italia e all’estero con cui fondersi.

A tale riguardo, le voci riguardano perlopiù Unicredit, Ubi, ma anche MPS stessa e Crédit Agricole.

Salvataggio Carige come Veneto Banca, Popolare di Vicenza e MPS?

Come si è arrivati a questo punto? La svolta è avvenuta il 2 gennaio scorso, quando la BCE ha commissariato la banca, ponendovi a capo Fabio Innocenzi, Pietro Modiano e Raffaele Lener. Il primo era stato fino a quel giorno l’ad dell’istituto, il secondo presidente. Entrambi, insieme a 3 consiglieri di amministrazione, si erano dimessi dopo che l’assemblea degli azionisti aveva bocciato nei giorni precedenti la ricapitalizzazione da 400 milioni di euro, sollecitata dalla BCE per via della bocciatura agli stress test di novembre. In quell’occasione, la banca era risultata l’unica in Italia a scendere sotto la soglia di patrimonializzazione minima richiesta per i casi avversi (CET 1 ratio al 5,5%).

Malacalza Investimenti di Vittorio Malacalza, azionista al 27,55%, aveva subordinato il suo assenso alla conoscenza del piano finanziario per il 2019 e degli obiettivi derivanti dalla ricapitalizzazione. Nulla di tutto questo è avvenuto, per cui ha (giustamente) deciso di non avallare il quarto aumento dal 2014, anno da cui sul mercato si sono raccolti già 2,2 miliardi di euro, finiti in un pozzo senza fondo, se è vero che nel frattempo le azioni Carige siano crollate dagli 11 euro del 2013 agli 0,0015 euro a cui erano precipitate fino alla sospensione in borsa delle contrattazioni di qualche giorni fa da parte della Consob.

La mala gestione degli Npl

E come mai questo tracollo verticale? Il problema si chiama sempre Npl, quei maledetti crediti deteriorati esplosi in Italia con la crisi del 2008 e divenuti un assillo per il nostro sistema bancario, l’unico in Europa a non avere goduto di un salvataggio sistemico o, comunque, di proporzioni significative. Quando oltre 10 anni fa crollava il mercato dei mutui “subprime” negli USA, trascinando nel baratro le banche europee, l’Italia non subì un vero contraccolpo sul piano finanziario, risultando la nostra economia privata poco esposta ai debiti. Tuttavia, la crisi da noi attecchì particolarmente tra famiglie e imprese, trascinando in basso il pil e mandando sul lastrico centinaia di migliaia di debitori, i quali non furono più capaci di ripagare alle banche i prestiti ricevuti. Al netto delle cattive pratiche di credito seguite (comuni al resto d’Europa) e delle fattispecie prettamente penali, come nei casi di MPS e delle due venete poste in liquidazione, le banche italiane subivano l’esplosione dei crediti deteriorati per gli effetti devastanti della crisi su famiglie e imprese.

Carige non sfugge a questo destino e ancora al 30 settembre scorso chiudeva i bilanci con Npe (misura estesa degli Npl) per un controvalore di 4,5 miliardi, a fronte di 17,2 miliardi di attivi, pari a un’incidenza del 27,5%. Troppo per la Vigilanza europea, che dal 2014 sorveglia gli istituti con almeno 30 miliardi di assets. Gli obiettivi da raggiungere a tappe forzate e imposti da Francoforte sono chiari: Npl lordi al 5% e netti al 2,5%. E così, a fine anno Carige vendeva un pacchetto di crediti dal controvalore nominale di 964 milioni per soli 215 milioni, ossia al 22% del prezzo originario.

Considerando un tasso medio di copertura del 53,7% al terzo trimestre, potremmo quantificare in circa 300 milioni le nuove perdite da iscrivere a bilancio, le quali si sommano agli 1,2 miliardi di svalutazioni già riportate da inizio 2017. E nonostante ciò, l’istituto possiede ancora Npl lordi al 20,4% e netti al 9,5%. Un’enormità per una banca, che in borsa capitalizza ormai noccioline, cioè appena 84 milioni, poco più del 4% dei 2 miliardi di patrimonio netto complessivo. In sostanza, le azioni Carige verrebbero azzerate da una perdita di appena il 2,4% riportate sui crediti a rischio.

Per questo, in concomitanza con la maxi-cessione, Carige emetteva un bond subordinato da 320 milioni al tasso fisso del 13%, sottoscritto interamente dallo Schema Volontario di Intervento, cioè le banche aderenti al Fondo interbancario di tutela dei depositi, le stesse verso cui i commissari ieri hanno spuntato condizioni migliorative proprio sul fronte dei tassi. Il problema restava e resta, quindi, la ricapitalizzazione. Eppure, non si può affermare che Malacalza non fosse interessato al destino della banca, visto che solo 4 mesi fa aumentava di quasi il 7% la quota in essa detenuta, chiarendo di essere disponibile a salire fino al 30%. Semplicemente, chiedeva di sapere che fine facessero i propri soldi, quale piano vi fosse dietro all’ennesimo aumento, che rischia di essere inutile come i tre precedenti, se poi di cessione in cessione dei crediti, le perdite più che compensano le iniezioni di liquidità apportate.

Sulle banche italiane è in arrivo una doppia mazzata su Npl e bond

Un disastro figlio di una pessima Vigilanza

Il problema sta tutto qua. L’ex capo della Vigilanza, Danièle Nouy, ha imposto una linea severa, quanto allucinata sugli Npl: vanno smaltiti quanto prima. Tuttavia, costringere le banche a vendere i crediti a rischio il più velocemente possibile significa ingolfare il mercato degli Npl con un eccesso di offerta, con la conseguenza che i prezzi di cessione si confermano di operazione in operazione sempre più bassi e inferiori agli accantonamenti effettuati, imponendo nuove perdite da iscrivere a bilancio.

Da qui, la sotto-capitalizzazione cronica, aggravata da simulazioni in sé grottesche e inutili, come quelle degli stress test, gli stessi che non hanno evidenziato negli anni alcun problema per istituti come Deutsche Bank e l’olandese Daxia. Si consideri che Carige, sempre al 30 settembre 2018, mostrava un CET 1 ratio al 10,9%, un livello teoricamente sufficiente ad allontanare i timori maggiori, con un Liquidity Coverage Ratio al 133%, anch’esso superiore al 100% minimo previsto dal regolatore.

Adesso, a capo della Vigilanza vi è l’italiano Andrea Enria, lo stesso che certo non aiutò le banche tricolori nel 2011, quando da presidente dell’Eba le costrinse a iscrivere i BTp disponibili alla vendita ai prezzi di mercato (“mark-to-market”), aggravando la speculazione sul mercato contro i nostri bond, la quale degenerò in una crisi finanziaria e politica gravissima. Il commissariamento disposto in sostanziale continuità gestionale può apparire in sé l’unica soluzione a un problema amplificato dalla stessa BCE. Se è vero che Carige ha la necessità di smaltire il portafoglio crediti a rischio, del resto bisogna mettersi in testa che non sarà mai possibile affrontare il problema con efficacia senza una ripartenza dell’economia nazionale. E dire che la Vigilanza aveva un anno fa ipotizzato l’applicazione di regole ancora più stringenti sulla cessione dei crediti deteriorati pregressi, cosa che avrebbe spazzato via dai bilanci bancari italiani decine di miliardi di capitale. I crediti si sono deteriorati a causa della crisi e i loro prezzi non reggono sul mercato per via della debole congiuntura, oltre che per l’eccesso di offerta di cui sopra. Negli ultimi 2 anni, sono stati ceduti Npl per quasi 145 miliardi lordi, a un prezzo medio del 18% nel 2017, nonostante la Gacs, la garanzia pubblica appostavi.

Un italiano alla Vigilanza per difendere le nostre banche?

L’unica conseguenza concreta di questo disastro della Vigilanza è l’azzeramento del valore del capitale delle banche più esposte agli Npl e la fusione (obbligata) con qualche pretendente da una posizione negoziale praticamente nulla. Chiunque, italiana o straniera, sposasse Carige nei prossimi mesi, lo farebbe senza pagare un solo centesimo. Anzi, nel caso di Intesa-Sanpaolo abbiamo vissuto il paradosso di uno stato che ha pagato l’istituto con denari pubblici, affinché rilevasse gratis gli assets delle due venete poste in liquidazione. “A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca” affermava Giulio Andreotti, uno dei pochi veri statisti italiani del secolo scorso. E certo che fa pensare che un investitore – nel caso specifico, Malacalza – debba limitarsi a mettere quattrini in un buco nero senza pretendere spiegazione alcuna, salvo essere costretto probabilmente a cedere il suo pacchetto di controllo a zero euro. Se non siamo all’esproprio, poco ci manca. Questo non è più capitalismo, bensì un mostro eterodiretto da pochi controllori con sede all’estero e sfuggenti a loro volta a qualsiasi controllo.

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