E anche l’Azerbaigian ha abbandonato il “peg” tra il manat e il dollaro, lasciando fluttuare il cambio da oggi liberamente sul mercato. E così, anche il terzo produttore di petrolio dell’ex Unione Sovietica ha dovuto arrendersi alla crisi delle commodities, che ha travolto le sue esportazioni. Il “de-peg” arriva proprio nel giorno, in cui le quotazioni del greggio sono scivolate ai minimi degli ultimi 11 anni. Lo stato del Mar Caspio deriva il 90% del suo export proprio dalla vendita di Brent, per cui l’impatto del crollo dei prezzi è stato ovvio sull’economia da 75 miliardi di dollari, che già a febbraio aveva dovuto svalutare del 25% il cambio, al fine di ridurre le pressioni sulle riserve valutarie, che quest’anno si sono più che dimezzate dai 15 miliardi di fine 2014 ai 6,2 miliardi del 30 novembre scorso.

Nell’intero 2015, il manat ha perso il 50%, registrando la peggiore performance tra le valute del pianeta. Il paese sta vivendo problemi analoghi a quelli riscontrati in altre economie produttrici di materie prime, come il rallentamento della crescita, attesa all’1,7% dal 2,8% da Moody’s nel 2016, nonché un aumento del deficit sopra il 9%, così come del rapporto tra debito e pil e dell’inflazione.        

Crisi petrolio porterà ad altre svalutazioni?

Nel novembre del 2013 era stata la Banca di Russia ad avere anticipato una tendenza, che successivamente sarebbe stata seguita da altri paesi, ossia di lasciare oscillare liberamente il cambio. Grazie a questa strategia, Mosca ha grosso modo evitato un innalzamento del deficit, perché il crollo del 70% del rublo negli ultimi 18 mesi le ha consentito di aumentare i ricavi della vendita di Brent in valuta locale. Nei mesi scorsi aveva abbandonato il cambio fisso anche il Kazakistan, mentre la Nigeria ha svalutato all’inizio dell’anno il naira, ma continua ad agganciarlo a un cambio intorno a 200 contro il dollaro, considerato sopravvalutato di circa il 15-20% rispetto ai fondamentali dell’economia nazionale.

Giovedì scorso è toccato all’Argentina abbandonare il “peg” e svalutare il peso, ma in quel caso la crisi delle materie prime non c’entrava, dato che la misura è stata frutto della volontà del nuovo governo di correggere le profonde distorsione accumulate dall’economia nell’era Kirchner. Di certo, però, il 2015 è stato l’anno della crisi dei cambi fissi o dei cambi controllati. Il 15 gennaio scorso, ad esempio, la banca centrale svizzera (SNB) annunciava l’abbandono della difesa del cambio minimo di 1,20 contro l’euro, mentre la Danimarca ha dovuto varare misure straordinarie per difendere il suo “peg” ultra-trentennale con il marco tedesco prima e la moneta unica dopo.      

Svalutazione rial a breve?

La questione sta diventando centrale proprio per le economie esportatrici di greggio, che stanno subendo un pesante deterioramento delle partite correnti. Una di queste è l’Arabia Saudita, che mantiene dal 1985 un aggancio con il dollaro del rial a un cambio di 3,75. La banca centrale di Riad ha segnalato la volontà di non porre fine al peg, ma ciò implica la necessità per il regno o di tagliare la spesa pubblica per contenere l’esplosione del deficit (atteso al 20% quest’anno e al 16% nel 2016) o di abbassare la produzione di petrolio, nella speranza che ciò porti a un più veloce riequilibrio del mercato e a una conseguente risalita delle quotazioni. In teoria, i sauditi avrebbero fino a 5 anni di tempo per valutare il da farsi, perché tanto dovrebbero durare le riserve da 640 miliardi di dollari, secondo l’FMI, prima di essere state del tutto intaccate. Vero è anche che se si verificasse una discreta risalita delle quotazioni e se il governo tagliasse un po’ la spesa pubblica e continuasse ad emettere debito per coprire parte del “buco” fiscale, le riserve risulterebbero sufficienti ancora per più tempo.

Ma il problema di affrontare con decisione la crisi dei conti pubblici si pone a Riad e l’abbandono del cambio fisso resta tra le opzioni sulla carta, ché ne dica il governatore Fahad al-Mubarak. D’altronde, anche l’elvetico Thomas Jordan aveva assicurato che il cambio minimo sarebbe stato difeso, pochi giorni prima di annunciare la fine del “peg”.