“Milano può ancora permettersi il modello Airbnb?”. E’ quanto si chiede polemicamente l’assessore all’Urbanistica del Comune di Milano, Pierfrancesco Maran, che vorrebbe limitare gli affitti brevi nel capoluogo lombardo tramite le piattaforme online. I numeri parlano di una popolazione in crescita media annuale di 15.000 persone all’anno, circa l’1% dei residenti, nell’ultimo decennio. In città, le case in affitto sono 100 mila su un totale di 600 mila, di cui più di 10 mila sono rivolti ai turisti. A dirla tutta, che appena un decimo delle case in locazione sia offerto per affitti brevi non sembra un’emergenza, per cui gli alti canoni dovrebbero essere ricondotti ad altre motivazioni.

Non la pensa evidentemente così la giunta di Beppe Sala, che vorrebbe spingere i proprietari di case a forme di locazione tradizionali, ai danni dei turisti.

Affitti brevi, la riforma del PD blocca il mercato del turismo e quello immobiliare

I dati di Idealista dicono che a Milano un immobile viene affittato mediamente a prezzi che vanno dagli 11 euro al metro quadrato in prossimità della fermata di Lampugnano, salendo fino ai 23,41 euro di San Babila, con rendimenti che possono arrivare fino al 6% dell’investimento. L’emergenza abitativa meneghina è figlia del suo successo economico. La metropoli attira ogni anno decine di migliaia di lavoratori, perlopiù under 35, dal resto d’Italia e ciò crea una domanda elevata di case, che superando l’offerta spinge i prezzi in alto.

Tuttavia, non è il modello Airbnb ad avere provocato l’impennata dei canoni di locazione negli ultimi anni. A parte che i circa 10 mila immobili sul mercato degli affitti brevi sono la conseguenza di una domanda crescente anche da parte dei turisti, legata in buona parte alle varie iniziative fieristiche ed espositive che si tengono in città nel corso di tutto l’anno, il punto è che se un proprietario decide di registrarsi su una piattaforma online per affittare anche solo pochi giorni all’anno il suo appartamento o la casa singola, ciò è dovuto all’assenza di alternative considerate di pari convenienza.

Tasse alte e giustizia lenta

La tassazione sugli immobili è esplosa nell’ultimo decennio, con l’IMU sulle seconde case a pesare come una sorta di imposta fissa e che va a sommarsi all’imposta applicata sui canoni di locazione nel caso in cui l’immobile venga per l’appunto locato. Misure come la cedolare secca hanno un po’ attutito il carico fiscale per i proprietari, ma i contratti di locazione tradizionali, quelli rivolti tipicamente alle famiglie, non si mostrano rassicuranti. Nel caso di inquilini morosi, i tempi della giustizia per procedere allo sfratto diventano inaccettabilmente elevati.

In teoria, una volta che l’inquilino non paghi l’affitto, il proprietario avrebbe modo di citarlo dinnanzi al giudice, il quale fisserà una prima udienza a distanza di almeno 20 giorni dalla data di citazione. Ma nella pratica, si attende spesso anche un periodo di 8-10 mesi per avere una prima udienza, che non è detto sia risolutiva, perché nel caso di opposizione dell’inquilino, il giudice potrebbe trovarsi costretto a fissare una seconda udienza, dilatando i tempi dello sfratto. E nel frattempo, l’inquilino smette di pagare, vuoi per dispetto, vuoi perché consapevole che, comunque, dovrà lasciare l’immobile. Passa anche qualche anno e la casa resta occupata, infruttifera, mentre le tasse vanno pagate lo stesso, così come le eventuali spese di manutenzione ordinaria e straordinaria. Il rischio di inadempienza contrattuale pesa come un macigno sul mercato degli affitti, già gravato da una tassazione esosa. In sostanza, lo stato pretende che i proprietari delle case paghino profumatamente, ma non fornisce loro alcuna garanzia concreta per i casi in cui rimangano vittime di inquilini morosi.

La scarsa tutela della proprietà spinge agli affitti brevi, che badate bene non sempre si rivelano così convenienti come si pensa rispetto a un contratto tradizionale, almeno non nel caso in cui quest’ultimo venga rispettato dal locatario. Piattaforme come Airbnb si prendono una percentuale mediamente del 20% del canone riscosso dal proprietario, a cui continua a sommarsi l’ordinaria tassazione o la cedolare secca del 21%. Bene che vada, quindi, un buon 40% dei ricavi se ne vanno tra commissioni e tasse. E bisogna occuparsi delle pulizie, di consegnare le chiavi, di cambiare le lenzuola, fare la spesa, etc., tra un arrivo e un altro. Chi non ha il tempo per farlo o non vive nelle vicinanze dell’immobile, dovrà “esternalizzare” questi lavoretti a terzi o anche a un’agenzia, sborsando altri soldi.

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L’attacco al modello Airbnb

Molti proprietari, quindi, optano per gli affitti brevi nella speranza di guadagnare qualche extra mensile e consapevoli che l’alternativa sarebbe legarsi a contratti pluriennali, nel corso dei quali gli unici veri garantiti sarebbero gli inquilini, dati i tempi biblici della giustizia italiana e la mancanza di azioni esecutive immediate per cacciare di casa chi non paga il canone. E per quanto esose, società come Airbnb quasi automaticamente garantiscono al proprietario domanda certa in ogni periodo dell’anno, data la vastità del mercato a cui dà accesso, praticamente una vetrina mondiale.

L’attacco agli affitti brevi non è una novità di Milano. Qualche settimana fa, due deputati del PD hanno presentato e, successivamente alle polemiche, ritirato, un emendamento al Decreto Milleproroghe, volto a rendere molto più restrittiva l’offerta su questo mercato peculiare. Resta in piedi l’ipotesi di considerare attività d’impresa l’affitto breve di un quarto immobile da parte dello stesso proprietario, con tutto ciò che ne conseguirebbe sul piano della necessità di aprire una partita IVA e costi annessi.

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