Nel panorama economico e politico europeo, una nuova priorità sta scalando le classifiche: la difesa comune attraverso il riarmo. Non è solo una questione militare, ma un tassello strategico dell’autonomia e della credibilità dell’Unione Europea. L’Ecofin 2025, incentrato su crescita, stabilità e investimenti comuni, ha messo nero su bianco un obiettivo ambizioso: mobilitare 150 miliardi di euro per rafforzare l’industria militare europea. Una svolta che avrà implicazioni rilevanti sul bilancio dell’Unione, sulle regole fiscali e sui rapporti geopolitici tra Stati membri.
La corsa al riarmo: da idea a urgenza concreta
La richiesta di potenziare la spesa in difesa non è nuova, ma il contesto attuale ha trasformato un auspicio in una necessità.
L’instabilità internazionale, l’invasione russa dell’Ucraina, le tensioni con la Cina e la possibilità di un minore coinvolgimento statunitense in Europa in futuro hanno riacceso il dibattito sulla sovranità strategica dell’UE. In questo quadro, la Commissione europea, su proposta di Thierry Breton, ha messo sul tavolo un piano di rilancio dell’industria militare che punta alla creazione di una vera base industriale europea della difesa.
Il piano prevede un investimento cumulativo di 100-150 miliardi di euro da raggiungere entro il 2028. Le risorse verrebbero attivate attraverso una combinazione di fondi nazionali, strumenti finanziari comuni e partnership con la Banca europea per gli investimenti. L’idea non è solo quella di acquistare più armi, ma di produrle insieme, in modo coordinato, per ridurre la frammentazione, rafforzare l’autonomia tecnologica e stimolare l’economia interna.
Il nodo delle regole fiscali europee
Uno dei principali ostacoli a una politica comune della difesa rimane il Patto di stabilità.
Sebbene riformato, esso continua a imporre vincoli stringenti su deficit e debito pubblico, lasciando poco margine agli Stati membri per manovre espansive. La proposta emersa dall’Ecofin è quella di escludere parzialmente la spesa per la difesa dai vincoli di bilancio, classificandola come “investimento strategico europeo”. Una soluzione simile a quella adottata per il Green Deal e il Next Generation EU, che permetterebbe ai Paesi più indebitati di contribuire allo sforzo comune senza compromettere la sostenibilità dei conti pubblici.
L’Italia, in particolare, si è mostrata favorevole a questa linea, spingendo per un trattamento simile a quello applicato in passato agli investimenti ecologici. Ma la partita è tutt’altro che chiusa: paesi come Germania e Paesi Bassi restano più cauti, preoccupati per una possibile deriva lassista nella disciplina fiscale.
Oltre al piano politico e strategico, il rafforzamento della difesa comune rappresenta anche una concreta occasione industriale. L’industria europea della difesa, sebbene ricca di competenze, è oggi frammentata, con una molteplicità di sistemi d’arma non compatibili tra loro e una produzione dispersa in diversi paesi. Con una strategia comune, l’Europa potrebbe favorire fusioni, sinergie e standard condivisi, con evidenti benefici economici.
Riarmo, un’opportunità anche industriale
Chi si sia d’accordo oppure no, è innegabile che un certo riscontro economico a livello di introiti non è da escludere.
Infatti, il sostegno pubblico a questa riconversione potrebbe attrarre anche investimenti privati, creare nuovi posti di lavoro e stimolare la ricerca in settori tecnologici avanzati, come l’intelligenza artificiale, la robotica e la cybersicurezza. Inoltre, una produzione interna più solida ridurrebbe la dipendenza da fornitori esterni, rafforzando la resilienza in caso di crisi internazionali.
La grande questione resta quella delle risorse. Per arrivare a 150 miliardi in pochi anni servono strumenti straordinari. Una delle ipotesi sul tavolo è quella dell’emissione di obbligazioni comuni europee, sulla scia del Recovery Fund. Ma il tema è divisivo. I Paesi più rigoristi frenano, temendo che un nuovo debito comune possa aprire la strada a una mutualizzazione permanente dei rischi finanziari. Altri propongono di potenziare i programmi già esistenti, come il Fondo europeo per la difesa, oppure di mobilitare capitali attraverso la Bei. Un compromesso potrebbe prevedere una governance condivisa delle risorse, con quote nazionali e una cornice strategica definita a livello comunitario. Ma servirà un accordo politico forte, che superi le storiche divisioni tra nord e sud Europa in materia di finanza pubblica.
Il ruolo dell’Italia nel riarmo
Per l’Italia, la svolta europea sulla difesa attraverso il riarmo è un’occasione per rafforzare il proprio comparto industriale, che vanta già eccellenze riconosciute a livello internazionale. Aziende come Leonardo potrebbero beneficiare di un maggior coordinamento europeo, ampliando la loro capacità produttiva e competitiva. Inoltre, una parte rilevante dei fondi comuni potrebbe essere destinata a progetti guidati o partecipati dall’Italia, con effetti positivi su occupazione e sviluppo tecnologico.
Ma per sfruttare questa opportunità, sarà fondamentale giocare un ruolo attivo nei negoziati europei e costruire alleanze con altri Paesi favorevoli a un bilancio più flessibile. In ballo non c’è solo la sicurezza, ma anche una nuova stagione di politica industriale continentale.
L’ambizione di mobilitare 150 miliardi per la difesa europea segna un cambio di paradigma per l’UE. Si passa da una visione strettamente economica dell’integrazione a una visione strategica, in cui sicurezza, autonomia e crescita vanno di pari passo. La strada sarà complessa, ma le basi sono state poste. E questa volta, a differenza del passato, l’Europa sembra pronta a prendere in mano il proprio destino.
Riassumendo.
- L’UE punta a mobilitare fino a 150 miliardi di euro entro il 2028 per costruire una vera industria militare comune.
- Si discute l’esclusione della spesa per la difesa dai vincoli del Patto di stabilità per favorire investimenti strategici.
- L’Italia potrebbe trarre benefici industriali e occupazionali, ma serve un’intesa politica solida tra gli Stati membri.