Il mercato dei “green bond” dovrebbe chiudere quest’anno con emissioni totali a 250 miliardi di dollari, segnando il +300% in appena 5 anni. Da quando il Climate Bond Initiative ha iniziato a certificare le obbligazioni verdi, di acqua sotto i ponti ne è passata. In questa fase, siamo a un punto di svolta. Qualche settimana fa, ENEL ha emesso titoli ESG, che per gli investitori sono diventati il “benchmark” per un nuovo mercato obbligazionario eco-sostenibile, pur meno ortodosso di quello verde puro. C’è un dato su tutti che dovrebbe far riflettere proprio i sostenitori dell’ortodossia: i rendimenti dei green bond tendono ad aggirarsi sugli stessi livelli – se non di poco superiori – di quelli dei bond ordinari di pari durata.

Eppure, sin qui siamo stati convinti del contrario, cioè che il mercato fosse così ben disposto a prestare i propri capitali alle società virtuose sul piano ambientale, che questa forma di indebitamento risultasse conveniente per gli emittenti. Non sembra del tutto vero. Prendiamo il bond sovrano “green” a 20 anni emesso a maggio dall’Olanda, che oggi offre un rendimento in area 0,10%, che si confronta con uno quasi del tutto simile del bond ordinario di durata simile. In Francia, invece, l’emissione verde si mostra meno generosa di una manciata di punti base.

Anche l’Olanda si butta sui green bond, ecco cosa c’è dietro alle obbligazioni verdi

Emissioni verdi non premiate?

Come mai queste obbligazioni non prendono il largo rispetto alla concorrenza? Proprio il boom dell’offerta spiegherebbe, almeno in parte, questa presunta anomalia. Il mercato è molto desideroso di mostrarsi sensibile sulla questione della lotta ai cambiamenti climatici, ma le emissioni green stanno esplodendo, pur restando una frazione del totale. E c’è la scarsa dimensione media dei green bond a renderli più difficili da tradare, quindi, meno liquidi e più rischiosi per gli investitori.

Partiamo da un paio di dati: le 200 emissioni “investment grade” in euro valgono 207 miliardi, meno di un decimo dei 2.300 miliardi di valore delle 2.800 emissioni ordinarie, sempre in euro e con rating IG.

Certo, sembrerebbe persino che le prime abbiano dimensioni medie superiori, di oltre 1 miliardo di euro ciascuna, ma si consideri che solamente i due titoli sovrani di Francia (21 miliardi) e Olanda (quasi 6 miliardi) insieme fanno circa il 13% del controvalore complessivo. E c’è un altro dato a rendere poco allettante questo mercato. Le emissioni sono tenute perlopiù da società con rating elevato, quelle che puntano sostanzialmente a indebitarsi in questa fase a costi nulli o poco positivi.

E gli investitori sono alla disperata caccia di rendimento in questi mesi, per cui la diversificazione dei loro portafogli punta adesso a inserirvi titoli più rischiosi e per questo un po’ più remunerativi. I green bond non vanno in questa direzione, a meno di non allargarne gli orizzonti, sebbene già oggi in molti si chiedono cosa effettivamente si stia finanziando sotto la certificazione del Climate Bond Initiative, visto che anche le compagnie petrolifere emettono questi titoli, pur essendo tra i principali responsabili dell’inquinamento globale. Servono chiarezza e flessibilità. In attesa che entrambe si consolidano, il mercato non premia le emissioni verdi, se non sporadicamente.

Il green bond “ossimorico” di Teekay, compagnia di trasporto petrolio

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