L’Olanda emetterà a maggio il suo primo “green bond”. Lo ha annunciato il ministro delle Finanze, Wopke Hoekstra, secondo cui l’operazione permetterà al mercato nazionale dei capitali “verdi” di svilupparsi. L’importo da collocare sarebbe fino a 6 miliardi di euro e la scadenza avverrebbe nel 2040, per cui si tratta di un ventennale. Sarà la prima obbligazione ad essere emessa da un debitore con rating “AAA”, segno che anche gli emittenti più solidi, sovrani e corporate, stiano guardando con crescente interesse a questo mercato.

In molti si chiederanno cosa siano i “green bond”. Si sono affacciati al mondo circa un decennio fa e inizialmente venivano emessi solo dagli organismi internazionali, mentre negli ultimi anni hanno riscontrato il favore delle società e, come stiamo vedendo con l’Olanda, pure dei governi.

Si tratta di titoli del debito, i cui incassi sono destinati alla realizzazione di investimenti ambientali, eco-sostenibili. Non esiste uno schema standard da seguire, ma l’International Capital Market Association (ICMA) ha predisposto alcune linee-guida, che gli emittenti sono soliti osservare. Esse sono quattro: la chiarezza nell’identificare la destinazione dei proventi; i progetti devono rientrare in precise categorie; la gestione dei proventi deve essere sottoposta a una comunicazione massimamente trasparente e l’investitore deve dar conto dello stato di avanzamento dei progetti, attraverso report periodici.

Al termine dello scorso anno, di obbligazioni verdi ne risultavano emesse per 580 miliardi di dollari, di cui 167,3 miliardi proprio nel 2018. Quest’anno, stando ai calcoli dell’investitore no-profit Climate Bonds Initiative (CBI), le emissioni dovrebbero ammontare a 250 miliardi, mentre nei primi tre mesi sono state pari a 45,4 miliardi. Se consideriamo che il mercato mondiale dei bond ammonta a circa 100.000 miliardi di dollari, notiamo come ancora stiamo parlando di una realtà di nicchia, pur in forte crescita, specie dopo l’Accordo di Parigi, raggiunto tra quasi tutti gli stati del mondo nel dicembre 2015, sebbene vacillante con il ritiro degli USA subito dopo l’ingresso alla Casa Bianca del presidente Donald Trump.

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USA e Cina primeggiano sui green bond

Lo sviluppo di questo mercato ha iniziato la fase di decollo con l’interessamento di paesi come la Cina all’abbattimento delle emissioni inquinanti e la conseguente necessità di reperire i fondi necessari per realizzare investimenti verdi e contrastare i cambiamenti climatici. Proprio Pechino detiene la seconda quota più alta dopo il 20% degli USA, con il 18% di bond detenuti in questo segmento. A seguire, troviamo l’8% della Francia, il 5% della Germania e il 4% dell’Olanda. In molti si chiederanno quale vantaggio abbiano le imprese e gli stati ad emettere debiti vincolati all’osservanza di regole più stringenti nella fase di gestione dei proventi. A rispondere a tale dubbio più che legittimo è stata una recente conferenza dello stesso CBI, organizzata a Londra, in cui diversi studiosi hanno portato le conclusioni di ricerche condotte da anni e secondo le quali gli emittenti di green bond beneficerebbero del cosiddetto “effetto aura”.

In pratica, è stato osservato che chi emette questi titoli tenderebbe sia a pagare lungo la curva delle scadenze spread minori, sia a godere di performance migliori anche con riferimento ai titoli azionari. In poche parole, il mercato apprezzerebbe le iniziative filo-ambiente e vi riverserebbe i capitali, esitando rendimenti più bassi, a parità di scadenze, nonché migliori prospettive anche sul fronte equity. Per capire il perché, si consideri che sono sempre più numerosi i board di istituzioni finanziarie a spingere per dirottare gli investimenti su iniziative di sostenibilità ambientale e a chiedere di cessare quelli relativi ad attività inquinanti. Nei mesi scorsi, ad esempio, ha fatto scalpore l’annuncio del fondo sovrano norvegese di voler uscire gradualmente dagli investimenti legati al comparto petrolifero.

La mossa è parsa eclatante per due ragioni: in primis, perché trattasi del fondo sovrano più grande al mondo, gestendo assets per oltre 1.000 miliardi di dollari; secondariamente, perché esso stesso è alimentato sin dalla sua nascita nel 1994 dai proventi petroliferi della Norvegia.

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I mercati sfruttano l'”effetto aura”

Emettere green bond, quindi, sembra sempre più la mossa ruffiana per accaparrarsi il favore dei mercati, i quali a loro volta non rinnegano certamente il motto “pecunia non olet” (“il denaro non puzza”), semmai lo aggiornano ai tempi odierni, dando seguito agli umori di una fetta crescente dell’opinione pubblica, compresa quella che nel concreto punta i propri quattrini sull’acquisto di questo o quell’asset. Volete mettere l’immagine di una società che si sia impegnata a rispettare i dettami dell’eco-sostenibilità e che si rivolge al mercato per realizzare gli appositi investimenti? Stiamo parlando di qualcosa di molto simile all’osservanza dei diritti sociali nei paesi (emergenti e sottosviluppati) in cui operano, che da anni numerose multinazionali professano per non indisporre i consumatori e segnalare il rispetto dei diritti più elementari di lavoratori, fornitori, etc.

Nel mondo di oggi, l’immagine è tutto e i green bond danno una mano a migliorarla. Del resto, secondo l’OCSE serviranno 6.900 miliardi all’anno di investimenti fino al 2030 per centrare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Dinnanzi a questa cifra mostruosa, nemmeno i 167,3 miliardi di obbligazioni verdi emesse nel 2018 appaiono significativi. Insomma, la salvaguardia dell’ambiente costa e la finanza internazionale ha iniziato a capire che a una fetta non indifferente della clientela interessano più i fatti che le chiacchiere, per cui ha fiutato l’affare di buttarsi su iniziative di questo tipo, che danno il senso di un’etica più matura e concreta. Per gli emittenti, l’opportunità di indebitarsi a costi più bassi per investire in iniziative compatibili con l’ambiente e che migliorano l’immagine aziendale, riducendo complessivamente gli oneri della raccolta di capitali sui mercati.

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