Il 2018 è stato un anno nero per lira turca e peso argentino. Le due valute emergenti sono letteralmente crollate entrambe intorno alla metà dell’anno, rispettivamente chiudendo a -30% e -50%, ma arrivando a perdere in estate l’una il 43% e l’altra più del 54%. Ad avere provocato la tempesta finanziaria contro Ankara e Buenos Aires sono stati fattori comuni, come il rialzo dei tassi USA da parte della Federal Reserve e la scarsa fiducia riposta dai mercati verso le rispettive banche centrali nell’annunciare le proprie mosse di politica monetaria.

Se il presidente Erdogan impedisce da anni in Turchia al governatore di fissare i tassi a livelli appropriati, persino il suo collega argentino Mauricio Macri è stato sospettato di attentare all’autorità dell’istituto, quando questo tra la fine del 2017 e l’inizio dello scorso anno ha segnalato una linea confusa su tassi e inflazione, scatenando la fuga degli investitori.

La Turchia rivede la luce dopo la tempesta finanziaria

Argentina e Turchia hanno storie recenti molto diverse, per il resto. La prima ha dichiarato default due volte dal 2001, sebbene nel 2014 in conseguenza delle diatribe giudiziarie con i fondi “avvoltoi” americani. E anche lo scorso anno, ha dovuto chiedere assistenza al Fondo Monetario Internazionale, il quale ha stanziato in favore della seconda economia latino-americana 57 miliardi di dollari, mai così tanti per un solo stato. Niente di tutto questo in Turchia, dove la crisi finanziaria del 2002 è stata superata puntando sulla crescita e l’apertura ai mercati internazionali, sebbene negli ultimi anni la politica di Erdogan abbia indisposto gli investitori stranieri per le sue posizioni geopolitiche discutibili e sempre meno tolleranti verso la finanza straniera.

Ad ogni modo, entrambe le economie emergenti sono esposte in valuta estera, ma in misura profondamente diversa. Chiediamoci, a questo punto, se i bond emessi dai due governi siano a rischio e se sì, quali di più.

Iniziamo dalla Turchia. Il suo pil pro-capite supera ormai i 10.000 dollari, a fronte di un indebitamento pubblico inferiore al 30%. Di questo, la gran parte risulta contratto in valuta estera, così da attirare capitali a costi relativamente bassi. Da qui, i timori di default che sono serpeggiati nei mesi scorsi con il crollo della lira turca, in quanto questo ha reso automaticamente più alto il valore del debito in dollari, euro, etc. Per capire il grado reale di rischio, dobbiamo guardare a due cose: le scadenze imminenti e la capacità del paese di accaparrarsi valuta estera con le esportazioni.

I numeri della Turchia

In tutto, il debito estero turco ammontava al marzo scorso a 466,7 miliardi, di cui 311,3 in capo al settore privato e 155,4 a quello pubblico. Al netto delle posizioni attive detenute dai turchi verso l’estero, scendiamo a 303,2 miliardi, il 34% del pil. Ciò quasi azzererebbe il debito estero del settore privato, mentre quello pubblico resta chiaramente intatto, dato che lo stato turco non è creditore di posizioni in valuta estera. Attenzione, però, a sottovalutare il settore privato, perché i suoi saldi netti non dovrebbero trarre in inganno: se un’impresa è indebitata verso una banca europea per 100 euro e un cittadino turco possiede sul suo conto un deposito in valuta estera sempre per 100 euro, le due posizioni (passiva e attiva) si annullano solo sul piano macro, ma l’impresa continuerà a risultare indebitata.

La banca centrale turca, poi, al novembre scorso ci forniva ulteriori dati interessanti: entro i successivi 12 mesi, cioè entro la fine di novembre di quest’anno, i privati dovranno rimborsare 136,5 miliardi di dollari, il settore pubblico, banche statali incluse, 38 miliardi. Calcolando che nel 2017 il valore delle esportazioni sia risultato pari a poco più di 139 miliardi, si ha che nell’insieme la Turchia presenti forti criticità sul piano delle scadenze in valuta estera, superiori di circa il 25% rispetto all’ingresso di tale valuta tramite esportazioni.

Lo sbilanciamento riguarda essenzialmente il settore privato, che da solo equivale a quasi il 100% delle esportazioni annue.

La crisi valutaria dilaga

Tuttavia, due precisazioni: negli ultimi 5 mesi, per 4 volte il saldo corrente, inclusivo dei flussi di capitali, è risultato attivo, segno che tra rialzo dei tassi e maxi-svalutazione, l’import-export si starebbe ribilanciando; inoltre, parte delle scadenze dei privati sarà verosimilmente coperta attingendo a quegli oltre 160 miliardi di dollari detenuti in valuta estera da imprese e risparmiatori individuali. Per contro, il valore delle importazioni continua a superare quello delle esportazioni tra i 60 e i 70 miliardi di dollari all’anno, per cui nemmeno utilizzando tutta la valuta in entrata per saldare i debiti in scadenza, questa si rivelerebbe sufficiente. In altre parole, in casi estremi, o s’intaccano le riserve valutarie, che superano i 130 miliardi, oppure si dovranno sacrificare le importazioni turche, similmente a quanto si è trovato costretto a fare il Venezuela negli ultimi anni, anche se Ankara disporrebbe di armi per evitare uno scenario simile, ossia una nuova stretta sui tassi per attirare capitali da un lato e tagliare la domanda di beni, servizi e capitali esteri dall’altro.

I numeri dell’Argentina

E l’Argentina? Ha un debito pubblico in valuta estera di 225 miliardi, quasi il 40% del pil, stando ai dati di fine 2017. Altri 30 miliardi si hanno in capo al settore privato. In realtà, tenendo conto anche dei 57 miliardi stanziati dall’FMI, si arriverebbe a 275 miliardi complessivi per il settore pubblico. Insieme al debito denominato in pesos, il conto per Buenos Aires salirebbe all’80% del suo pil. Ad ogni modo, qui il problema sono le basse esportazioni, pari a meno di 52 miliardi nel 2017, 4,35 volte inferiori al solo debito pubblico denominato in valuta estera. Tuttavia, il saldo commerciale appare più positivo rispetto alla Turchia, cioè di soli -7,5 miliardi.

E le scadenze? Quelle dei bond sovrani in dollari saranno quest’anno di 5,9 miliardi, per cui non dovrebbero esserci grosse difficoltà a rimborsarli, trattandosi di qualcosa come poco più del 10% del valore delle esportazioni. Resta il fatto che queste ultime, al netto delle importazioni, risultino negative.

Argentina col cappello in mano e il cambio continua a collassare

Comparando i bond decennali emessi in dollari dai due stati, abbiamo che quello argentino rende oggi il 5,9%, quello turco il 5,2%, rispettivamente circa 1.500 (15%) e 9.300 (9,3%) punti base in meno dei rispettivi bond in valuta locale, a testimonianza che il mercato valuterebbe comunque più a rischio quelli di Buenos Aires, data la storia recente del paese sudamericano e i peggiori fondamentali, con un’economia in recessione, scarse importazioni e una percentuale alta di debito pubblico espresso in valuta estera sia rispetto al totale, che con riferimento al pil. A dire il vero, sembra persino basso il rendimento offerto dal decennale argentino, tenuto conto dell’omologo turco.

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