Il fenomeno delle dimissioni di massa non accenna a rallentare. Non sempre, però, lasciare il lavoro è fattibile in uno schiocco di dita e… arriva il quiet thriving a cercare di sistemare le cose. O, almeno finché non si trova una nuova opportunità. L’ennesimo termine inglese per definire un fenomeno semplicissimo e molto sano: “prosperare silenziosamente”. O meglio, creare le condizioni di maggior benessere possibile sul lavoro per non impazzire e mollare tutto d’impulso quando non si potrebbe (per ragioni contrattuali, economiche o perché non abbiamo ancora trovato altro).

O, se vogliamo essere completamente onesti, rivendicare quello che già ci spetterebbe. Un ambiente sano, con rapporti equilibrati e rispettosi con capi e colleghi.

Ma anche la ricerca di soddisfazione negli obiettivi perseguiti, di nuovi stimoli per rendere di più e con più entusiasmo. Non più correre in ufficio imbruttiti, stanchi, già consapevoli che la giornata sarà un incubo di discussioni e frustrazione. Una sorta di lavoro Mindfulness, una meditazione sul positivo che dovrebbe cambiare la nostra prospettiva al lavoro attuale. Può il quiet thriving funzionare, assicurarci benessere e frenare l’ondata di dimissioni?

Cos’è il quiet thriving e perché dovrebbe frenare il desiderio di fuggire dal posto di lavoro

Prima di arrivare al quiet thriving serve un piccolo passo indietro. Non si parla d’altro da settimane. Forse addirittura da mesi. La pandemia ha segnato una rivoluzione in ambito lavorativo. Abbiamo infatti compreso che ci serve più flessibilità, più tempo per la nostra vita privata, più spazio per le nostre esigenze. Quindi, è partito in quarta il fenomeno del turnover di posti di lavoro. Addio a quelli rigidi, che non assicurano lavoro agile e orari flessibili e non vengono incontro alle esigenze del lavoratore. Ma addio anche a quelli che non formano, non permettono di fare carriera, non valorizzano il lavoratore con uno stipendio commisurato agli sforzi e al costo della vita.

Basta sanguinosi sacrifici senza un sensato ritorno economico, ma anche in termini di soddisfazione. Le ricerche dimostrano che oggi cerchiamo ambienti non tossici, relazioni proficue con colleghi e capi, mentalità al passo coi tempi e possibilità di crescita. Così, per chi non può dare immediatamente le dimissioni, è nato il quiet thriving. Una forma di adattamento positivo, di ottimismo verso la situazione che si sta vivendo. Secondo uno studio condotto da EasyHunters, società di ricerca e selezione di personale qualificato, è definibile come tendenza a cambiare il proprio approccio al lavoro.

Entra in gioco quando cerchiamo nuovi stimoli, proviamo a migliorare le relazioni professionali con colleghi e manager, ci diamo obiettivi condivisi e stimolanti per crescere professionalmente.

Una via d’uscita quando mancano altre soluzioni

Insomma, il quiet thriving non è altro che un tentativo di rendere positiva una situazione che non possiamo cambiare. È un cambio di visione, di mentalità per il bene proprio e di tutti. Come spiega Francesca Contardi, managing director di EasyHunters:

“A tutti, prima o poi è balenata nella testa l’idea di mollare il proprio posto di lavoro, anche senza avere una valida alternativa già pronta. Ma dobbiamo essere onesti, questa idea non è quasi mai attuabile e questo, a lungo andare, può generare frustrazione e malessere nelle persone che, come accaduto diffusamente nei mesi scorsi, possono mettere in pratica quello che abbiamo imparato a conoscere come quiet quitting e che, tuttavia, non è una strada da percorrere all’infinito. Ed è proprio qui che subentra il quiet thriving, la tendenza a rincorrere quella prosperità silenziosa che ci consente di vivere al meglio le ore che trascorriamo in ufficio”.

Se non puoi cambiare le cose, allora guardale da un’altra prospettiva e fai uno sforzo perché sembrino migliori. O almeno più digeribili nel breve termine.

Come mettere in pratica il quiet thriving

Il radicale cambio di approccio previsto dal quiet thriving non è sempre semplice, soprattutto per chi lavora in realtà molto tossiche in cui lo spazio di miglioramento è minimo. In ogni caso, prevede di riflettere attentamente su come ritrovare l’interesse nei confronti del proprio lavoro. Su come tornare ad impegnarsi per portare a termine ciò che serve e vivere ore più serene in ufficio, senza eccessive ansie e stress. Come riuscirci? Secondo Francesca Conardi:

“Il primo obiettivo è riuscire a sentirsi più coinvolti dal proprio lavoro, identificando, ad esempio, gli aspetti e le attività che si ritengono più soddisfacenti e stimolanti. Il quiet thriving, però, è anche legato alla qualità delle relazioni con manager e colleghi: il miglioramento della soddisfazione, infatti, passa anche attraverso la qualità delle relazioni con le persone con cui si trascorre una parte importante della quotidianità. Promuovere un atteggiamento più propositivo porta inevitabilmente benefici perché, non dimentichiamolo, non c’è niente di più deleterio, anche a livello di business, di un ambiente lavorativo stressante, senza stimoli e ricco di conflitti”.

Proprio ciò che molte aziende faticano a comprendere. Un ambiente sano, sereno e in cui i lavoratori sono felici conviene a tutti. Anche al fatturato stesso.

L’aiuto che dovrebbe arrivare dall’alto

Cosa dovrebbero fare le aziende che vogliono favorire il quiet thriving? Promuovere una comunicazione sana, sincera e continua. A corredo, è irrinunciabile anche l’ascolto, per capire cosa crea malessere nei dipendenti e cosa non piace ai superiori. Infine, investire sulla formazione anziché utilizzarla come arma di ricatto della serie “se ti formo tu cambi azienda”. Più il dipendente è formato più saprà cavalcare i grandi cambiamenti e l’innovazione che ciclicamente travolgono il mondo del lavoro.

Un successo annunciato o l’ennesimo trend destinato a morire?

Il quiet thriving funziona davvero? Può aiutarci a migliorare la situazione lavorativa da cui vogliamo scappare? Come sempre, la risposta è una: dipende.

Dipende da quanto compromessi sono i rapporti sul lavoro. Da quanto difficile sia la comunicazione nell’ambiente. Da quanto la competitività incida sul benessere di tutti e via dicendo. Un ambiente estremamente tossico non diventerà paradisiaco se siamo solo noi, come singoli, a cercare di vederlo sotto nuovi occhi. In casi in cui c’è possibilità di dialogo e collaborazione di base, però, il quiet thriving può fare la differenza.