Quello delle dimissioni a pioggia è un fenomeno tutto nuovo, scatenatosi a livello globale e in corsa come un fiume in piena. La grande spinta è arrivata dopo la pandemia, durante la quale ci siamo resi conto di non poter più sacrificare (per sempre) la vita personale in favore di quella lavorativa, straripante e senza limiti.

Una tendenza che non investe solo la nostra Italia: negli Stati Uniti è stata ribattezzata come “the great resignation”, le grandi dimissioni. Insomma, impossibile girare la testa altrove e non far finta di vedere.

Cresce e cresce senza sosta la quantità di persone che lasciano il posto di lavoro. I numeri parlano chiaro e non lasciano spazio a dubbi. Quali sono i motivi dietro questa ondata dalla spinta inesauribile? Cosa è successo perché diventasse un’esigenza per così tante persone?

I numeri parlano chiaro e le ragioni dietro questa scelta altrettanto. Abbandonare posti in cui non c’è possibilità di carriera, trovare un ambiente più inclusivo e al passo coi tempi, avere a disposizione soluzioni agili per non sacrificare la famiglia e il tempo personale, ottenere uno stipendio più adeguato alle proprie esigenze. Queste sono solo alcune delle motivazioni che spiegano la tendenza in corso di osservazione da parte degli esperti.

Tutti i numeri legati alle dimissioni e le motivazioni più comuni

I numeri registrati in Italia si basano sui dati trimestrali comunicati dal Ministero del Lavoro. Queste misurazioni non includono il numero di lavoratori coinvolti, ma indicano direttamente la quantità di rapporti di lavoro terminati a seguito di dimissioni. Secondo questi report, tenetevi forte!, sono oltre 1,6 milioni le dimissioni registrate nei primi 9 mesi del 2022. Un aumento del 22% in più rispetto all’anno precedente, nello stesso periodo. Nel 2021, infatti, ne erano state registrate 1,36 milioni. Nel terzo trimestre del 2022 le dimissioni sono state 562mila, in crescita del 6,6% (pari a +35mila) rispetto al terzo trimestre del 2021.

Oltre ai contratti a termine, quindi, le dimissioni volontarie costituiscono una delle più frequenti cause di cessazione dei rapporti di lavoro. Crescono purtroppo anche i licenziamenti, ma presto vedremo i numeri a supporto. Tornando alle dimissioni, quali sono le motivazioni che giustificano una simile tendenza in un tempo di crisi economica folle e grandi incertezze?

Prova a spiegarle una ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano di maggio 2022. Prima di tutto, c’è l’esigenza di trovare un trattamento economico migliore, un desiderio che spinge il 46% dei lavoratori che danno le dimissioni. Il 35% di questi è mosso dalla ricerca di opportunità di carriera. Il 24%, invece, cerca nuove soluzioni lavorative che gli permettano di prendersi maggiormente cura della salute fisica e mentale. Il 18% desidera un lavoro basato sulle proprie passioni o lavorare in realtà che consentano una maggiore flessibilità oraria.

Ormai la parola d’ordine è equilibrio: trovare un migliore compromesso tra vita privata e lavorativa è un must. Secondo gli esperti, però, nell’ondata di dimissioni interviene anche il divario sociale, economico e culturale tra generazioni. Al momento, al comando delle aziende troviamo i baby boomer, con mentalità, esperienze e ideali ben diversi da quelli dei millennial e dei lavoratori della Generazione Z che impiegano. Se i primi continuano a insistere per orari massacranti e lavori che non lasciano spazio alla vita privata, i secondi rivendicano il diritto al benessere personale.

Pareri e previsioni dei sindacati riguardo al fenomeno dimissioni

Cosa ne pensano i sindacati di questo fenomeno delle grandi dimissioni? Per Tania Scacchetti della Cgil:

“L’aumento delle dimissioni può avere spiegazioni molto differenti. Da un lato può positivamente essere legata alla volontà, dopo la pandemia, di scommettere su un posto di lavoro più soddisfacente o più ’agile’. Dall’altro però, soprattutto per chi non ha già un altro lavoro verso il quale transitare, potrebbe essere legato a una crescita del malessere dovuta anche ad uno scarso coinvolgimento e ad una scarsa valorizzazione professionale da parte delle imprese”.

Un problema, quest’ultimo, di cui si discute già da tempo, ma che non sembra avere la giusta risonanza. Anche Giulio Romani della Cisl ha detto la sua:

“bisogna rivedere i modelli organizzativi verso una maggiore qualità”,

dato che le aziende che mettono al centro la qualità del lavoro e il benessere dei propri dipendenti sono ancora pochissime. Davvero, pochissime. Per la maggior parte sono imprese che vanno dai 10 ai 250 dipendenti. Il panorama lavorativo, come Romani prosegue a spiegare:

“è però occupato per circa il 95% da microimprese, quelle con la minore produttività, all’interno delle quali mediamente si fatica di più a sviluppare forme di welfare integrativo e dove non si pratica la contrattazione aziendale e non si costruiscono sistemi premianti trasparenti. Dove si eroga poca formazione, si genera minore conciliazione vita-lavoro, si intravedono le minori prospettive di crescita economica e professionali”.

Il risultato è chiaro a tutti. Infine, Ivana Veronese della Uil aggiunge:

“Sono molte le dimissioni volontarie, forse un segno di come le priorità si siano modificate anche nella testa delle lavoratrici e lavoratori: se da qualche parte c’è uno smart working più flessibile, se la retribuzione dove lavoro è troppo bassa o gli orari troppo disagevoli, se ho voglia di provarci davvero, un lavoro, magari anche sicuro, lo si può lasciare”.

Non importa quanto impatti la crisi. Passiamo la maggior parte della nostra giornata (e della nostra vita) a lavoro e la nostra salute, sia fisica che mentale, non ha prezzo. Ecco come nasce il desiderio di ambienti sani, che valorizzino il lavoratore sotto ogni punto di vista e ne rispettino gli spazi personali. La mentalità del sanguinoso sacrificio a ogni costo doveva prima o poi tramontare, per fortuna!

Cosa accade ai licenziamenti?

Oltre alle dimissioni, purtroppo, aumentano sensibilmente anche i licenziamenti.

Secondo i dati registrati dal Ministero del Lavoro, tra gennaio e settembre 2022 sono stati registrati circa 557 mila contro i 379 mila nello stesso periodo del 2021. Un aumento del 47% rispetto a un periodo in cui, però, era in vigore il blocco dei licenziamenti. Quindi, numeri che vanno presi con le pinze.

Solo nel terzo trimestre del 2022 ne sono stati registrati 181mila, con un aumento del 10,6% rispetto allo stesso periodo del 2021. Come spiegare tutti quest’altro fenomeno? È probabile che sia un movimento fisiologico di un mercato del lavoro che diventa più dinamico. Intervengono ovviamente anche le conseguenze della crisi, che stanno prendendo di mira tutti i settori.

Sarà interessante osservare cosa accadrà nei prossimi mesi.