La riforma pensioni è diventata ormai uno slogan popolare. Non ci crede più nessuno, a partire dagli stessi lavoratori, rassegnati a dover aspettare i 67 anni prima di percepire l’agognata rendita dello Stato.

Mancano i soldi, si sa. La popolazione invecchia, campa più a lungo e lo Stato, che ha fatto male i conti in passato, è costretto adesso a pagare pensioni anticipate senza le dovute coperture. L’ultima delle quali è Quota 100 che ha mandato in pensione migliaia di lavoratori troppo presto rispetto alla media Ue e alle aspettative di vita in Italia.

L’ondata anomala dei baby boomers

Ma al di là di queste considerazioni, quello che più frena l’azione di Governo per una riforma pensioni più equa e giusta sono le previsioni di spesa. Secondo le stime degli esperti, dal 2025 il costo della previdenza è destinato a crescere a un ritmo maggiore rispetto ad oggi. Le previsioni contenute nel Def, di recente approvato dal governo, parlano di una incidenza del 17% del Pil entro il 2030 e del 17.4% nel 2036.

A spingere sull’acceleratore della spesa pensionistica è l’ondata di pensionamenti in arrivo dai baby boomers degli anni ’60.  I nati in quegli anni inizieranno ad andare in pensione a partire dal 2025 per raggiungere il picco dieci anni più tardi. Numericamente sono tanti. Negli anni ’60 l’indice di natalità, a seguito del boom economico. Raggiunse il picco con oltre 1 milione di nascite all’anno, per poi cominciare a calare negli anni ’70. E se il Pil nei prossimi anni non dovesse crescere, come da previsioni, per lo Stato sarà un problema.

Un problema che si interseca con il calo delle nascite. Tutto previsto e all’attenzione dei tecnici del Ministero del Lavoro e dall’Inps. Ma non tutti lo hanno capito. Per cui, attivare altre deroghe al sistema pensioni della Fornero sarà più diffiicile e il governo Meloni ha le mani legate.

Spesa per le pensioni in forte aumento

Ma c’è un altro fattore che tende a frenare la riforma pensioni e per la quale in DEF 2023 non tratta l’argomento come dovrebbe. E’ l’impennata dell’inflazione. Ciò comporta che le pensioni in pagamento e in aumento numericamente devono essere rivalutate oltre ogni previsione.

Già si è visto che per il 2023 la perequazione automatica piena è stata limita ai soli trattamenti non superiori a 5 volte l’importo minimo. E così sarà anche per il 2024. Ma questo cosa ci dice? Che non ci sono abbastanza risorse economiche per mandare in pensione prima del 67 i lavoratori. Anche perché, al contempo, le spese per l’assistenza crescono di anno in anno per il progressivo invecchiamento della popolazione.

Così, fra ondata di pensionamenti di baby boomers in arrivo e inflazione alle stelle, la riforma resterà argomento tabù ancora per molto tempo.