L’emergenza Covid ha travolto, e in certi sensi “sconvolto”, anche il mondo del lavoro: così, se fino a qualche tempo fa indossare strumenti di protezione individuale era una prerogativa di certi professionisti (medici, infermieri ed operatori sanitari in generale), adesso mascherine e igienizzanti sono entrati a far parte della vita quotidiana, diventando un accessorio di uso comune.

Indossare la mascherina, quindi, è diventato obbligatorio in molte circostanze, specie in contesti professionali. Ma cosa succede se un lavoratore rifiuta di servire cliente senza mascherina? Quali sono le conseguenze? Ma soprattutto, cosa può fare (o non può fare) l’azienda?

In merito alla questione si è espresso il Tribunale di Arezzo, pronunciandosi in merito alla “illegittimità del licenziamento per giusta causa comminato al dipendente che si rifiuta di servire un cliente senza mascherina”.

Vediamo nel dettaglio su cosa ha sentenziato il giudice e secondo quali criteri di legge e principi di diritto la decisione è stata presa.

Può l’azienda licenziare il dipendente che rifiuta di servire cliente senza mascherina?

Può essere licenziato un lavoratore che rifiuta di servire cliente senza mascherina? In quanto obbligo di legge, l’utilizzo della mascherina rientra tra le disposizioni anti Covid che tutti devono rispettare per una questione di sicurezza pubblica. Quando vengono meno queste condizioni anche in contesti lavoratori/professionali, però, il dipendente che per questo motivo non assicura il servizio non sta venendo meno ad un proprio dovere, questo perché – come specificato dal Tribunale di Arezzo – è un “diritto del lavoratore a svolgere la propria prestazione in condizioni di sicurezza”. Pertanto, è da considerare illegittimo il licenziamento di un lavoratore che rifiuta di svolgere la propria attività davanti ad un cliente che, seppur richiamato, rifiuta di indossare la mascherina (o un qualsiasi altro strumento di protezione individuale rientrante tra le misure anti Covid).

Tale principio è stato ribadito (e chiarito) con la sentenza n. 9 del 13 gennaio 2021 emessa dal Tribunale di Arezzo, che ha ritenuto illegittima la rescissione del contratto di lavoro in questi casi, affermando che l’azione del dipendente non è altro che l’esercizio del diritto a svolgere la prestazione di lavoro in sicurezza e che, di conseguenza, con la sua azione non ha violato alcun obbligo di natura contrattuale.

Il caso

Con ricorso depositato ad agosto 2020, quando ancora l’Italia era considerato uno stato in piena emergenza sanitaria (con il numero dei contagi che iniziava già a salire dopo la tregua estiva), il datore di lavoro, che aveva licenziato il proprio dipendente perché si era rifiutato di servire un cliente senza mascherina, si è rivolto al giudice sostenendo che il recesso del contratto poteva rientrare tra quelli per giusta causa. Questo perché, si legge nella sentenza, il lavoratore in questo modo risultava “inadempiente nei confronti dei suoi obblighi contrattuali” per aver “disatteso le indicazioni aziendali previste in questo periodo di emergenza sanitaria”, avendo così “danneggiato gravemente l’immagine aziendale”.
Il comportamento avuto dal dipendente, però, non è stato considerato dal giudice come idoneo a ledere definitivamente la fiducia alla base del rapporto di lavoro, infatti è stato sottolineato che – nella fattispecie – il lavoratore “si è limitato ad esercitare il proprio diritto, costituzionalmente garantito, a svolgere la propria prestazione in condizioni di sicurezza”.

Licenziamento per giusta causa: quando è possibile?

Con la sentenza n. 9/2021, il Tribunale di Arezzo è quindi entrato nel merito del licenziamento per giusta causa. Il licenziamento del lavoratore che rifiuta di servire un cliente senza mascherina non integra la violazione del dovere di fedeltà né, tantomeno, la giusta causa di rescissione del contratto.

Il concetto di “Obbligo di fedeltà, infatti, è chiaramente definito dal codice civile, dove all’art.

2103 viene specificato che: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. E nessuna delle azioni poste dal dipendente, in questo caso specifico, rientrano tra quelle di concorrenza sleale.

Il codice civile, inoltre, ci fornisce la corretta definizione di licenziamento per giusta causa, stabilendo all’art. 2113 che:

Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto la liquidazione coatta amministrativa dell’impresa. Gli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro sono regolati dal codice della crisi e dell’insolvenza.

Tutti i comportamenti o le motivazioni non rientranti tra quelle espressamente previste dalla legge. Dunque, non danno al datore di lavoro il diritto di recedere dal contratto per “giusta causa“. Da qui la decisione del giudice di Arezzo di procedere con la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, integralmente confermata, anche sotto il profilo economico – risarcitorio.

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