Sarebbero più di 250 le società ad avere sospeso la loro campagna pubblicitaria su YouTube, dopo avere scoperto che i loro spot finivano, in alcuni casi, per essere trasmessi in siti dal contenuto offensivo e, addirittura, di sponsorizzazione del terrorismo internazionale. Il caso è esploso alcune settimane fa, quando The Times ha svelato che alcune pubblicità del governo britannico e di svariate società multinazionali britanniche erano state trasmesse su siti di istigazione all’odio e di aperto sostegno all’ISIS. La pubblicazione dell’esito della ricerca ha spinto le principali multinazionali nel mondo a porre maggiore attenzione a dove finissero i propri spot su YouTube e a ruota sono arrivate le richieste di sospensione delle rispettive campagne pubblicitarie.

Tra i big americani ad avere annunciato una pausa, troviamo colossi come Johnson & Johnson, General Motors, Pepsi Cola, McDonald’s, AT&T e Verizon. Un duro colpo all’immagine della società controllata da Google, che ha chiuso il 2016 con un fatturato di 10,2 miliardi di dollari. (Leggi anche: Fare soldi con video YouTube)

L’impatto del boicottaggio contro YouTube sui conti Google

Quale possa essere il danno ai conti di Mountain View non è immediato comprenderlo, ma secondo gli analisti di Nomura, potrebbe ammontare a 750 milioni. Il calcolo è effettuato, tenendo presente che solamente le prime cinque società americane rappresentano il 7,5% degli investimenti pubblicitari negli USA. Sulla base di questi dati, si stima un calo delle entrate nel secondo e terzo trimestre di 295 milioni ciascuno e di altri 165 milioni nel quarto.

Non tutti gli analisti appaiono pessimisti come Nomura. Morgan Stanley evidenzia, ad esempio, che i primi 100 pubblicitari per Google incidono per meno del 20% del suo fatturato da 89,5 miliardi. RBC Capital Markets, invece, nota come il business affetto dal problema sopra esposto sarebbe solo il 10% del totale degli affari di Google; come dire, che quand’anche vi fosse un boicottaggio di massa dei pubblicitari contro YouTube, il danno sarebbe ugualmente contenuto, anche perché non intaccherebbe i ricavi provenienti dalle ricerche (28,5 miliardi), che rappresentano il grosso del business del gigante USA.

(Leggi anche: Fake news e siti dell’odio mettono a dura prova la pubblicità online)

Le novità sulla policy di YouTube

E YouTube sta già correndo ai ripari, cercando di assegnare maggiore potere agli inserzionisti, in modo che essi abbiano più controllo e contezza su dove andrà a finire la loro pubblicità. Il vice-presidente del product management, Ariel Bardin, ha spiegato qualche giorno fa quali iniziative la società intende adottare per rispondere alle richieste dei clienti:

  1. Lotta ai contenuti diffamanti e di odio razziale, sessuale, religioso, etc, arrivando a rimuovere gli spot pubblicitari dai siti che li ospitano;
  2. Maggiori poteri agli inserzionisti, affinché possano escludere la pubblicità dai siti ad alto rischio e targetizzare maggiormente le tipologie di video su cui pubblicare gli spot;
  3. Accelerazione del processo di revisione dei video “demonetizzati”;
  4. Lotta alle imitazioni di contenuti creati dagli utenti, in modo da non danneggiare le loro entrate;
  5. Lotta alle discriminazioni: YouTube è stata utilizzata spesso da gruppi, che si considerano discriminati sui media tradizionali. Tuttavia, le restrizioni consentite agli utenti per accedere ai contenuti potrebbero avere provocato involontariamente discriminazioni ai danni di alcune categorie, come lamenta la comunità Lgbtq. La società promette di intervenire per evitare simili problemi.

Basterà un aggiustamento alla policy per attirare nuovamente la fiducia dei clienti in una società, che consente ogni minuto la pubblicazione di 400 ore di video nel mondo? Forse, qualcosa nel rapporto tra pubblicitari e internet sembra essersi rotto negli ultimi tempi, ma YouTube non è l’unica vittima. Anche Facebook sembra sempre più risentire delle lamentele sulle “fake news” e gli “hate speeches”, tanto che il governo tedesco di recente ha sanzionato i social per la loro riluttanza nel cancellare tempestivamente notizie infondate e post discriminatori.

Il dubbio è che dietro l’improvvisa campagna di multinazionali e politici vi sia non tanto la volontà di combattere l’esplosione dell’odio in rete, quanto di censurare contenuti sgraditi e iper-critici verso interessi consolidati. (Leggi anche: Social media, ricavi pubblicitari più alti dei giornali entro il 2020)