Quasi uno shock per i quasi 330 milioni di utenti di tutto il mondo, quando il ceo Jack Dorsey ha comunicato loro su Twitter, ça va sans dire, che potranno utilizzare fino a 280 caratteri e non più 140, il limite ad oggi esistente. Il manager ha spiegato tale decisione con il fatto che la precedente limitazione è stata legata ai 160 caratteri degli SMS. La novità non riguarderà, però, tutta l’utenza, perché non sarà estesa ai twittaroli di Giappone, Cina e Corea del Nord.

Discriminazione? Per niente. Si tratta semplicemente di una necessaria distinzione linguistica. La società spiega, infatti, che solo lo 0,4% dei tweets in giapponese contiene 140 caratteri, mentre per quelli scritti in inglese sono il 9% del totale. La quantità mediana di caratteri utilizzati dai giapponesi è di 15, in inglese sale a 34, anche se la percentuale maggiore di tweet inviati è di 140 caratteri, appunto.

Nelle lingue orientali, si riesce ad esprimere un concetto con minori caratteri, mentre in lingue come inglese, francese, spagnolo e portoghese, sostiene la società, tra gli utenti serpeggia spesso un senso di frustrazione per l’impossibilità di concentrare in 140 caratteri un pensiero chiaro e completo. (Leggi anche: Twitter, è guerra contro soprusi online)

Utenti storici a rischio?

Quale sarà l’impatto di questa novità? Apparentemente, positivo. Eppure, c’è il rischio di alienare l’utenza storica di Twitter, quella che da anni si era abituata alla limitazione attuale e che apprezzava del microblogging proprio la necessità di esprimere concetti compiuti in poche battute. Uno dei principali problemi potrebbe arrivare dal mondo delle imprese, il quale ha trovato abbastanza interessante utilizzare pochi caratteri per lanciare un messaggio al mercato. Qualcuno, se non in tanti, potrebbero decidere di lasciare Twitter, nel caso avvertissero che il raddoppio dei caratteri consentiti trasformi il social in una sorta di secondo Facebook.

Se Dorsey e i suoi managers hanno deciso di innalzare il limite a 280 caratteri, una ragione ci sarà.

E questa potrebbe risiedere nella volontà della società di ampliare la base degli utenti, che a distanza di ben 11 anni dalla nascita di Twitter, resta confinata a soli 328 milioni di unità attive mensilmente, quando Instagram, nata meno di 7 anni fa, vanta già 700 milioni di utenti e Facebook ha superato la soglia dei 2 miliardi. Cosa ancora più preoccupante è che il microblogging registra negli ultimi due trimestri un’utenza stagnante, a fronte di ricavi persino in calo su base annua.

Numeri Twitter deludenti, nonostante Trump

Il fatturato nel 2016 è stato di 2,5 miliardi, sceso a 2,384 miliardi negli ultimi 4 trimestri al 30 giugno scorso. Suddividendolo per il numero degli utenti attivi mensilmente, i ricavi unitari si attestano a quasi 7,3 dollari l’anno, nettamente superiori ai 4,6 dollari di Instagram e ai circa 4,4 di Facebook. Tuttavia, Twitter non ha mai chiuso un bilancio in attivo e nel 2016 ha segnato un rosso di oltre 400 milioni. Il suo titolo in borsa ha perso il 30% nell’ultimo anno e a una capitalizzazione di appena 12,24 miliardi, mentre Facebook ha guadagnato nello stesso arco di tempo il 27%, salendo a una capitalizzazione di 477 miliardi. D’altra parte, la creatura di Mark Zuckerberg ha maturato utili per 3,6 miliardi nel 2016, più del doppio dell’anno precedente. (Leggi anche: Da Apple a Facebook, i 5 colossi che valgono una volta e mezza l’Italia)

A fronte di questi dati, Twitter non può più permettersi di aspettare che gli utenti aumentino e con loro salgono i ricavi e, soprattutto, che arrivino finalmente gli utili. Serve una svolta, anche rischiando di perdere gli utenti storici, se questa ne porterà di nuovi, facendo della società dei cinguettii un social diffuso come i diretti concorrenti, attirando persone che ad oggi ne sono rimaste fuori per la difficoltà nel concentrare un messaggio in 140 caratteri.

In particolare, è necessario fatturare di più al di fuori degli USA, i quali costituiscono ancora il 60% dei ricavi totali. E pochi giorni fa è uscita un’analisi di Monness Crespi Hardt, secondo cui i tweets del presidente americano Donald Trump, per quanto siano vissuti spesso con insofferenza dai managers della società, varrebbero 2 miliardi di capitalizzazione. Da quando si è iscritto nel 2009, il tycoon ne ha spediti 35.000 e ha utilizzato la piattaforma negli ultimi due anni per la sua campagna presidenziale prima e per comunicare il suo pensiero dalla Casa Bianca da quest’anno, offrendo un’opportunità unica di visibilità a un social ancora un po’ di nicchia. Eppure, nemmeno l’uomo più potente del mondo è riuscito ad oggi a risollevare le sorti di Twitter. Ce la faranno 280 caratteri?