Soltanto 3 eurodeputati italiani su 76 hanno votato a favore del nuovo Patto di stabilità nella seduta plenaria di ieri a Strasburgo: Lara Comi e Herbert Dorfmann del Partito Popolare Europeo e Marco Zullo di Renew Europe. Il commissario agli Affari monetari, Paolo Gentiloni, ci ha ironizzato sopra: “il voto ha unito la politica italiana”. Tutta la maggioranza di centro-destra a Roma si è astenuta (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia), così come il Partito Democratico. Contro il solo Movimento 5 Stelle, oltre a un deputato di Renew Europe.

Si assiste assai raramente, per non dire mai, a risultati di questo genere. Anche perché le indicazioni dei rispettivi gruppi sono state favorevoli ai testi legislativi portati in votazione.

Nuovo Patto di stabilità, pesano le europee

Tutto questo si spiega con la campagna elettorale già in corso per le europee. Nessuno dei partiti voleva essere accusato di avere votato a favore dell’austerità fiscale “imposta dall’Unione Europea”. Ci troviamo dinnanzi a due inediti: una maggioranza di governo che disapprova in Parlamento quanto votato al Consiglio europeo, cioè all’assise dei capi di stato e di governo. E poi abbiamo un PD che sconfessa il suo eurolirismo del passato con una posizione critica verso il modello fiscale propinato da Bruxelles.

Vecchie regole fiscali

Cerchiamo di capire cosa prevede il nuovo Patto di stabilità. Per prima cosa, ricordiamo in cosa consisteva il vecchio, rimasto in vigore dal 1999, anno di introduzione formale dell’euro, e fino all’arrivo della pandemia nel marzo del 2020. Esso fissava il debito pubblico di uno stato ad una percentuale massimo del 60% rispetto al Pil e il deficit al 3%. Questi furono per decenni i due paletti con cui i governi si confrontarono, anche se all’applicazione pratica il testo era più complesso. Ad esempio, nel valutare lo sforamento dei conti pubblici la Commissione europea faceva riferimento all'”output gap“, cioè alla differenza tra il Pil potenziale e il Pil effettivo.

Da quest’anno, pur con un certo gradualismo previsto in sede di negoziazione tra stati, si cambia. I due riferimenti del 60% per il debito e del 3% per il deficit non scompaiono, ma rientrano all’interno di un insieme di regole apparentemente più flessibili. Mettiamo le mani avanti: il nuovo testo appare di più difficile comprensione. Del resto, è stato frutto della mediazione tra i “falchi” del Nord Europa che chiedevano regole rigide e di automatica esecuzione e le “colombe” del Sud che puntavano alla flessibilità in materia fiscale.

Nuove regole fiscali

Il nuovo Patto di stabilità prevede piani di rientro nazionali entro quattro anni per i conti pubblici degli stati con un debito sopra il 60% o un deficit sopra il 3% del Pil. I singoli governi tratteranno con la Commissione un periodo più lungo, fino a sette anni, in cambio di riforme a sostegno della crescita e a beneficio del bilancio dello stato. Nei casi in cui il debito risultasse superiore al 90% – l’Italia è sopra il 137% – la riduzione annuale deve essere almeno dell’1% (dello 0,5% sotto il 90%). E negli anni di crescita, il deficit massimo non dovrà eccedere l’1,5%.

Previsto un periodo di flessibilità per il triennio 2025-2027, al fine di tenere in considerazione la maggiore spesa per interessi per effetto dell’aumento dei tassi e per non attenuare la portata espansiva del Next Generation Eu. Ad esempio, i cofinanziamenti nazionali saranno scorporati dal calcolo della spesa e senza limitazioni. La traiettoria per il rientro nei parametri ha ad oggetto la spesa primaria, cioè al netto degli interessi sul debito, delle uscite legate al ciclo economico e delle sovvenzioni comunitarie.

Polemiche tra maggioranza e opposizioni

L’Italia ha fissato un deficit al 4,3% per quest’anno, giù dal 7,4% del 2023.

Dovrà cercare di ridurlo entro l’1,5% in un lasso di tempo di massimo sette anni. Il problema è che nel Def 2024 le cifre messe nero su bianco dal governo intravedono una crescita del debito pubblico in rapporto al Pil fino al 2026. Nell’ipotesi per noi migliori, l’Italia dovrà garantire alla Commissione europea che sarà in grado di abbassare tale rapporto, transitoriamente anche meno dell’1% all’anno previsto dal nuovo Patto di stabilità.

Il voto (quasi) unanime degli eurodeputati italiani di ieri ha acceso le polemiche tra maggioranza e opposizioni. Queste accusano la prima di avere “sfiduciato” il loro ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, il quale aveva accolto positivamente l’approvazione del nuovo Patto di stabilità a dicembre. Affermazioni semplicistiche. A dire il vero, il cambio di posizione riguarda tutti e per mero calcolo politico. Il governo ha in parte subito il nuovo testo, frutto dell’accordo franco-tedesco dell’ultimo minuto ad una settimana dal Natale. D’altra parte, esso appare minimamente migliore del precedente, garantendo maggiori margini di trattativa con Bruxelles sui piani di rientro nazionali.

Sul nuovo Patto di stabilità nessuna posizione italiana comune

L’unanimità del voto non è figlia di una presa d’atto collettiva del Parlamento italiano riguardo al proprio interesse nazionale. Ammesso, ovviamente, che questo coincida con l’allentamento delle regole fiscali. L’astensione sul nuovo Patto di stabilità non ha fatto nascere alcuno spirito unitario tra la classe politica italiana. E’ stata una semplice coincidenza dettata dall’appuntamento elettorale di giugno. Sulle regole fiscali continua a non esistere alcuna veduta comune.

[email protected]