Non è un buon periodo per le banche centrali, colte in flagranza di reato ad inondare i mercati di liquidità con l’inflazione salita nel frattempo ai massimi degli ultimi quaranta anni. Nell’ultimo anno, i governatori hanno cercato di recuperare credibilità alzando i tassi d’interesse e ritirandosi dai programmi di allentamento monetario. Rischiano di provocare non solo recessione, bensì anche di fare saltare in aria il sistema bancario e persino qualche grosso paese iper-indebitato. Chi avesse letto Robert Lucas, non si sorprenderebbe dei cattivi risultati ottenuti dalla politica monetaria per cercare di rianimare l’economia.

Lucas è morto ieri all’età di 85 anni e nel 1995 ottenne il Premio Nobel per l’Economia su un suo studio elaborato nel 1976. Esso dava manforte alla critica monetarista alla curva di Phillips, ma si spingeva oltre. Se Milton Friedman proprio nel ’76 aveva vinto a sua volta il Nobel, mettendo in discussione il presunto “trade-off” di lungo periodo tra inflazione e disoccupazione e ritenendolo semmai valido per il breve periodo, per Lucas la curva di Phillips non esisterebbe neppure nel breve. Gli attori dell’economia reagiscono alle misure di politica monetaria all’istante, a suo avviso. Per questo, le neutralizzano.

Critica monetarista a curva di Phillips

Cerchiamo di capirci di più. Negli anni Sessanta, sin dagli Stati Uniti di J.F. Kennedy si era diffusa la convinzione che esistesse la possibilità per i governi di centrare obiettivi occupazionali puntando sull’inflazione. Lo spunto era stato servito da un grafico pubblicato qualche anno prima da Arthur Phillips. Esso dimostrava che a tassi più alti d’inflazione corrispondevano tassi di disoccupazione sempre più bassi. Quel grafico smontava sia le teorie keynesiane pure, in base alle quali non esisterebbe inflazione fintantoché il mercato del lavoro non fosse in piena occupazione, sia i modelli neoclassici per i quali il mercato, lasciato libero, garantirebbe sempre la piena occupazione.

Friedman aveva criticato la curva di Phillips, sostenendo che nel lungo periodo esisterebbe una retta, tale per cui ad un certo tasso di disoccupazione “naturale” corrisponderebbero infiniti tassi d’inflazione. In che senso? Se una banca centrale inflaziona l’economia, può sorprendere i lavoratori la prima volta. Questi, ignari del “tranello”, sia accontentano inizialmente di salari reali che si riveleranno più bassi di quelli ipotizzati. Ciò stimola le assunzioni delle imprese, per cui l’aumento dell’inflazione finisce per generare occupazione. Ma tutto questo dura il tempo di scoprire l’inganno. A quel punto, i lavoratori ridurranno la loro propensione al lavoro. Peggio: aumenteranno le loro aspettative d’inflazione, costringendo la banca centrale ad alzare ulteriormente il target d’inflazione per evitare quella che altrimenti sarebbe una recessione economica certa.

E’ questo il punto su cui ruota la teoria monetarista. Se pensi di sostenere l’occupazione a colpi d’inflazione, ti ritrovi con più inflazione e la stessa occupazione di prima. Insomma, in una condizione peggiore. Se vuoi tornare ai livelli d’inflazione più bassi precedenti al tuo intervento, dovrai verosimilmente passare per un periodo di recessione; il tempo che i lavoratori “raffreddino” le loro aspettative sul futuro andamento dei prezzi.

Testamento di Robert Lucas alle banche centrali: statevene buone

E arriviamo a Lucas. Egli più che sposare la teoria monetarista sopra esposta, la supera. Sostiene molto più radicalmente che la curva di Phillips non esiste neppure nel breve periodo, ovvero che l’inflazione non produca mai effetti positivi sull’occupazione. Per quale ragione? Lavoratori e imprese reagiscono immediatamente agli interventi del policy maker, il quale non centrerà mai gli obiettivi perseguiti. Nel momento in cui interviene in economia, modifica i comportamenti degli agenti e ottiene risultati sempre diversi da quelli desiderati.

Si può essere d’accordo o meno con Lucas, ma ciò su cui vale la pena soffermarsi è il suo scetticismo, così come quello degli altri economisti di “destra”, sul buon esito delle azioni dei governi. Anzi, se vogliamo ad essere in discussione sono persino i buoni propositi di chi pretende di governare l’economia. Lucas non nutriva fiducia verso le banche centrali, che in questi anni hanno confermato le buone ragioni del defunto economista. Consegnare le sorti della crescita a governatori sempre più onnipotenti, a tratti spocchiosi e rivelatisi in occasione del boom dell’inflazione a dir poco carenti di giudizio, oltre che di solide nozioni teoriche, significa sottovalutare la natura dell’uomo e la sua capacità di reazione agli stimoli esterni. Insomma, l’onnipotenza delle banche centrali è un fatto storicamente innaturale e destinata sempre a soccombere alla realtà. Lucas ce lo aveva spiegato quasi mezzo secolo fa. Bastava leggerlo.

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