Questa smentiva in un solo colpo i pensieri dominanti fino all’epoca: quello neo-classico o liberista, in quanto dimostrava come la piena occupazione non si fosse registrata nemmeno quando le economie erano in condizioni di mercato quasi del tutto libero, in cui la presenza dei sindacati era scarsa; quello keynesiano, perché basato sulla convinzione che non potesse esserci crescita dei prezzi in un’economia, senza che si fosse giunti prima alla piena occupazione. La curva di Phillips ebbe conseguenze notevoli sul piano economico, perché fu interpretata quale strumento di politica economica nelle mani dei governi, i quali avrebbero potuto scegliere una combinazione per loro ottimale tra inflazione e disoccupazione. Sulla spinta di questa nuova teoria, il democratico John Kennedy vinse le elezioni presidenziali in America nel 1960 contro una vecchia volpe come Richard Nixon.
La critica monetarista alla curva di Phillips
Senonché, proprio negli stessi anni in cui gli economisti post-keynesiani assorbivano nella loro teoria gli insegnamenti di Phillips, un noto economista, a capo dell’American Economist Association, Milton Friedman, sconfessava l’esistenza di una simile curva, tirando le orecchie ai colleghi che la accettavano. Friedman spiegò che gli economisti avrebbero compiuto un errore madornale, confondendo il salario nominale con quello reale. La ratio del suo ragionamento fu questa: quando un governo aumenta l’inflazione per cercare di ridurre la disoccupazione, ovvero di stimolare la crescita dell’economia, lo fa cogliendo di sorpresa i lavoratori, i quali si attendono una crescita dei prezzi inferiore a quella reale. Ciò li induce ad accettare salari nominali più bassi di quelli che accetterebbero, se conoscessero l’effettivo aumento dei prezzi. Le imprese, invece, conoscono bene la loro variazione, essendo esse stesse a fissarli. Ne deriva un’asimmetria informativa, che porta a un mercato del lavoro con più occupati. Tuttavia, spiega Friedman, il miglioramento occupazionale dura poco, giusto il tempo di scoprire la “fregatura”. Infatti, una volta che i lavoratori abbiano appreso il reale livello dell’inflazione, chiederanno aumenti salariali proporzionali, per cui il mercato del lavoro si riporterà al livello occupazionale precedente. Ma – ed è qui la critica più incisiva dell’economista – l’economia non tornerà al tasso d’inflazione precedente alla “sorpresa” della banca centrale, perché i lavoratori hanno ora aspettative maggiori sulla crescita dei prezzi.
Dalla crisi petrolifera alla Reaganomics
Per questo, conclude Friedman, la curva di Phillips non solo non esiste, ma nel lungo periodo la disoccupazione è compatibile con qualsivoglia tasso d’inflazione, a seconda delle aspettative sui prezzi. L’intervento statale, quindi, peggiora le condizioni economiche, perché da un problema (la disoccupazione) si arriva ad averne 2 (disoccupazione e inflazione). Per questo, il padre del monetarismo invitò i governi ad astenersi dall’adottare politiche monetarie attive per cercare di stimolare la crescita, sostenendo che dovrebbero puntare a ridurre la disoccupazione con altri mezzi. La critica di Friedman rimase ignorata per oltre un decennio, fino a quando negli anni Settanta non si verificò un fenomeno allora considerato inusitato, ovvero la compresenza di alta inflazione e alta disoccupazione. Era successo, infatti, che la crisi petrolifera del 1973 aveva fatto esplodere i prezzi del greggio, che a loro volta avevano alimentato una spirale inflazionistica grave in tutto l’Occidente, dipendente dalle materie prime. Le economie importatrici subirono una battuta d’arresto nella loro crescita e alcune andarono persino in recessione. I tassi di disoccupazione s’impennarono, ma ciò sembrò incompatibile con le spiegazioni dei teorici della curva di Phillips, secondo i quali alta inflazione avrebbe dovuto implicare bassi tassi di disoccupazione. Sull’onda del riflusso dalle politiche interventiste in ambito monetario e non solo, l’America virava a destra e a 20 anni dalla storica vittoria di Kennedy, si affidava a Ronald Reagan, ex attore del cinema americano, il cui pensiero economico era imbastito profondamente delle teorie monetariste di Friedman.
La curva di Phillips smentita ancora
La lotta all’inflazione negli USA passò effettivamente per una fase di recessione, quella del 1981-’82, ma fu seguita da un periodo di crescita, tale per cui alla fine del secondo mandato di Reagan, l’economia americana era cresciuta in termini reali del 38% rispetto al 1980.
Il mancato legame tra inflazione e crescita
Abbiamo, quindi, che l’inflazione oscilla intorno allo zero in Svezia, dove il pil cresce quest’anno del 3,7%; che in Svizzera sia negativa, mentre l’economia avanza di poco, ma avanza; che nell’Eurozona e negli USA, nonostante tutti i tentativi delle rispettive banche centrali di rianimare i prezzi, l’inflazione resta prossima allo zero, mentre il pil tende a crescere. Viceversa, il Brasile sperimenta un’inflazione al 10% e un pil in calo del 3%, l’Argentina vanta uno dei tassi di crescita dei prezzi più alti al mondo (+24-25%), ma la sua economia è stagnante; per non parlare del Venezuela, dove l’inflazione viaggia a 3 cifre, mentre il pil arretra del 10%. Eppure, commentatori, politici, banchieri di ogni angolo del pianeta continuano a ribadire la necessità di innalzare l’inflazione per stimolare la crescita, in totale contrasto con l’evidenza. La stessa Svezia, che in questi mesi cresce al ritmo di boom economico, vede diminuire la disoccupazione, ma teme la bassa inflazione o lo scivolamento nella deflazione, tanto che la Riksbank avverte di essere pronta a intervenire anche sul mercato dei cambi per stimolare i prezzi. Una strenua difesa di una teoria apparentemente sconfessata già oltre 40 anni fa, ma a conferma che il dibattito economico sul punto tende ad alimentarsi di decennio in decennio e discrimina tra le varie identità politiche esistenti.