La “guerra” commerciale tra USA e Cina si arricchisce di un nuovo, importantissimo capitolo. Dopo che il governo Trump ha messo al bando il colosso dei telefonini Huawei, Google ha annunciato che non fornirà più ad essa servizi, compreso l’aggiornamento di Android. Una decisione pesante, che ieri ha provocato il tonfo del Nasdaq (-1,70%) e che ha colpito il comparto tecnologico in tutto il mondo, con il titolo STm in Italia a perdere circa il 10%. Eppure, ieri sera Washington ammorbidiva la propria posizione, annunciando un rinvio di 3 mesi per l’entrata in vigore dell’embargo.

Come mai un cambiamento così repentino in poche ore? I crolli in borsa erano prevedibili, così come le preoccupazioni di analisti e imprese, per cui ci sarebbe qualcos’altro dietro al mezzo passo indietro.

Obbligazioni Huawei in calo sulle sanzioni USA

Nelle stesse ore, il presidente Xi Jinping visitava lo stabilimento di Jl-Mag, leader nel settore delle terre rare, accompagnato dal vice Liu He, capo negoziatore per la Cina sulle trattative commerciali con gli USA. Il titolo della società si è impennato del 10%, scontando previsioni ottimistiche del mercato su possibili aiuti di Pechino. In molti, infatti, hanno inteso la visita come un messaggio in codice inviato da Xi a Trump, una minaccia nemmeno troppo implicita di blocco delle esportazioni delle terre rare.

Le terre rare sono 17 elementi della tavola periodica, ossia minerali, molto utilizzati dall’industria tecnologica, da quella automobilistica, ma anche per la costruzione di armi, televisori, etc. La sola Cina detiene un quasi monopolio mondiale, producendo il 95% dell’offerta complessiva. Nel 2011, quando impose il contingentamento delle esportazioni, i prezzi esplosero e alcuni minerali arrivarono a costare più dell’oro. Gli USA importano dalla Cina circa l’80% delle terre rare di cui hanno bisogno, senza le quali accuserebbero danni irreparabili alla loro produzione.

L’alternativa della Corea del Nord

La minaccia di Pechino, per quanto velata, avrebbe già colpito nel segno.

Eppure, le alternative vi sarebbero, anche se non immediate. La Corea del Nord disporrebbe delle più grandi riserve di terre rare al mondo, pari a circa il doppio di quelle attualmente accertate, qualcosa come oltre 216 milioni di tonnellate, contro i 55 della Cina, dal valore stimato di 2.800 miliardi di dollari, circa 85 volte il pil nordcoreano. Ad oggi, tali immensi giacimenti non sono sfruttati per carenza di tecnologia, oltre che per l’isolamento commerciale e finanziario totale in cui versa Pyongyang.

Questo non significa che anche in futuro le cose restino così. Chi può dire se dietro alle aperture di Donald Trump a Kim Jong-Un e i due storici, quanto clamorosi, faccia a faccia dell’ultimo anno non vi sia anche la volontà di Washington di azzerare la minaccia cinese più temibile, appunto quella di un embargo sulle terre rare? Se la Corea del Nord entrasse sul mercato gradualmente, l’America riuscirebbe a centrare due obiettivi: rendere spuntate le armi di Pechino contro la sua industria e ottenere un crollo dei prezzi, a beneficio proprio degli importatori, nonché infliggendo perdite enormi ai produttori cinesi.

Ieri, il Remx Rare Earth Etf ha chiuso a +6% sulle tensioni USA-Cina, anche se su base annua perde quasi il 50%. L’apice venne raggiunto proprio nella primavera 2011 a 114 dollari, 100 in più dei prezzi attuali, a conferma delle conseguenze forti che un’eventuale mossa ostile di Xi avrebbe sul mercato mondiale. Per i consumatori sarebbe un contraccolpo costoso, in quanto dovrebbero pagare molto di più per l’elettronica di consumo, e non solo. Ma chissà che Trump non tenderà ancora più decisamente la mano a Kim per rendere innocue le minacce cinesi?

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