Una tassa sui “parassiti sociali” è stata introdotta in Bielorussia nel 2015. Nell’intento del presidente Alexander Lukashenko, al potere ininterrottamente dal 1994 e considerato dall’Occidente “l’ultimo dittatore d’Europa”, l’imposta da 250 dollari dovrebbe essere pagata da quanti siano occupati nel corso dell’anno solare per meno di 183 giorni o 6 mesi. Secondo i dati disponibili per gli ispettori fiscali, lo scorso anno avrebbero dovuto versare tale somma 470.000 cittadini residenti, ma solamente 50.000 lo hanno fatto. Formalmente, chi si sottrae all’obbligo rischia i lavori forzati e fino a 25 giorni di carcere.

Ma dopo che a febbraio sono esplose le proteste di piazza, guidate dalle opposizioni, il governo ha annunciato che il decreto sarà rivisto a marzo, avvertendo che non si tratta, però, di un ritiro. Quanti, invece, avessero pagato l’imposta per il 2016 sarebbero rimborsati. Un’importante vittoria per gli oppositori, che annunciano nuove proteste a marzo, dato che il loro obiettivo rimane il ritiro del decreto. (Leggi anche: Bielorussia, Lukashenko ammette la crisi fiscale)

Tassa sui parassiti sociali, incongruenze

Lukashenko, che negli ultimi tempi tenta di sottrarsi alla sfera d’influenza russa e ad avvicinarsi all’Occidente, complice una recessione economica pesante, che dal 2014 ha sottratto il 7,5% del pil cumulato, vorrebbe contrastare il “parassitismo sociale”, costringendo per legge i cittadini bielorussi a lavorare almeno oltre la metà dell’anno, adempiendo alla previsione della Costituzione di Minsk, secondo la quale ciascun cittadino è tenuto a contribuire alle spese dello stato.

Per quanto l’IVA già rappresenti un terzo delle entrate complessive, secondo il presidente non si tratterebbe di un contributo dei cittadini alle spese generali dello stato. E così, vai con una tassa apposita su chi non ha un lavoro a tempo pieno, che in sé rischia l’assurdo di gravare su soggetti, che ufficialmente non posseggono alcun reddito. (Leggi anche: Bielorussia vara misure draconiane contro rischio iper-inflazione)

L’obiettivo reale? Far pagare le tasse a chi sfugge al fisco

Il retro-pensiero di questa imposta sarebbe anche un altro: costringere a pagare le tasse quanti sfuggirebbero al fisco con il lavoro nero.

Tuttavia, così com’è stata congegnata, la tassa sui disoccupati di fatto grava su tutti coloro che non abbiano trovato un lavoro per almeno sei mesi consecutivi e non si siano registrati nelle apposite liste di collocamento o che studino, nonché su quanti lavorino part-time o decidano di non lavorare, ma godendo di un reddito familiare congruo e, pertanto, senza gravare sull’assistenza sociale.

Il problema è molto sentito nell’ex stato sovietico, perché ufficialmente solo lo 0,1-0,2% dei lavoratori risulta disoccupato. Ciò, perché per essere considerati tali è necessario iscriversi alle liste dell’agenzia statale, cosa che fanno in pochi, dato che essa non garantisce lavori ben retribuiti e lo stato di disoccupazione non offre benefici assistenziali significativi per gli interessati, ammontando l’assegno di disoccupazione a soli 13 euro al mese, quando il pil pro-capite del paese è di oltre 6.000 dollari l’anno.

Chi volesse sfuggire all’imposta, dovrebbe sottoporsi a umilianti ispezioni a domicilio del fisco, dimostrando di non avere la possibilità di versare la somma richiesta, oppure iscriversi nella lista apposita come disoccupato, quand’anche non fosse alla ricerca di un posto di lavoro.