Da quando si è insediato alla Casa Bianca, il presidente americano Donald Trump ha esibito una politica estera piuttosto muscolare, accusando anche per interposta persona la Germania e il Giappone di manipolare il cambio, in modo da esportare di più e di essere tra le principali responsabili del pesante deficit commerciale USA. Ma Trump è noto per avere minacciato in campagna elettorale dazi del 45% contro i prodotti cinesi, accusando la Cina di “manipolazione del cambio”, attraverso la svalutazione dello yuan.

E, invece, proprio verso la Cina sta tenendo da settimane un atteggiamento piuttosto pacato, rimediando anche alla telefonata intercorsa con il leader di Taiwan, che di fatto aveva posto fine a una pluridecennale tradizione americana di non interferenza nella sentita questione dell’indipendenza dell’isola.

(Leggi anche: Cina, yuan chiude peggior anno dal 1994)

Fuga di capitali dalla Cina

Vi ricordate l’agosto del 2015, quando la Cina con diverse azioni a sorpresa svalutò lo yuan per il 3% in tutto? Le borse mondiali crollarono, come ci ricorda la drammatica seduta del 24 di quel mese. Da allora, il cambio contro il dollaro ha perso il 7,6%, anche se quest’anno ha recuperato un 1% tondo, quasi a rassicurare Washington.

In realtà, le cose non starebbero messe per niente bene per Pechino. Le sue riserve valutarie sono scese sotto i 3.000 miliardi di dollari a gennaio, per la prima volta da sei anni a questa parte, crollando di 1.000 miliardi dal picco toccato nel 2014. E nel biennio 2015-2016, la seconda economia del pianeta ha accusato deflussi di capitali per complessivi 833 miliardi di dollari. (Leggi anche: Cina, timori per fuga di capitali)

Cina sta difendendo yuan

Per cercare di reagire a questo trend negativo, la People’s Bank of China sta cercando di difendere il cambio con la vendita di Treasuries, di cui non è più prima detentrice al mondo, superata dal Giappone.

Dal picco di 1.320 miliardi posseduti nel 2013, adesso ne ha poco 1.050 miliardi e grosse cessioni sono state registrate nel novembre scorso per 66,4 miliardi. Risultato: in poco più di un anno, sono stati venduti titoli di stato USA per oltre 200 miliardi. Le autorità cinesi hanno anche imposto di recente controlli sui capitali, imponendo limitazioni agli acquisti di assets stranieri per 50.000 dollari all’anno su base individuale. Già nell’agosto di due anni, era stato ordinato il blocco della cessione di grossi pacchetti azionari in capo agli investitori stranieri, tutto con il fine di arrestare o almeno minimizzare i deflussi. (Leggi anche: Debito USA, Cina non più primo creditore)

Che cosa sta accadendo? L’economia cinese sta rallentando, pur essendo cresciuta del 6,7% nel 2016, a ritmo quadruplo rispetto all’Eurozona. Ma grossa parte di questa crescita è dovuta a un eccesso di investimenti, oltre che di debiti privati. Da soli, i cinesi investono annualmente più di europei e americani messi insieme. Lungi dall’essere motivati da ragioni di redditività attesa, gli investimenti pubblici nascondono in molti casi sprechi immani e sono il frutto di una lotta tra enti locali per rendersi visibili agli occhi dello stato centrale, ingraziandosi la dirigenza politica comunista.

Economia cinese troppo indebitata

I nodi stanno arrivando al pettine: le banche sono sovraesposte, gli enti locali troppo indebitati, avendo necessitato di una ciambella di salvataggio da parte della PBoC, che ha varato un apposito QE per allungare i prestiti a rischio. L’offerta stessa appare spropositata in molti casi, come per l’acciaio, che continua ad essere caratterizzato da una produzione di gran lunga eccedente la domanda. (Leggi anche: Cina, debito esplosivo minaccia economia mondiale)

In queste condizioni, lo yuan perde valore, perché gli investitori temono che i fondamentali dell’economia cinese siano peggiori di quelli che i dati ufficiali lasciano credere.

Da qui, la fuga dei capitali e i tentativi di Pechino di addolcirla con misure anche drastiche. Paradossalmente, la Cina non sta svalutando lo yuan, ma tenta disperatamente di stabilizzarne il cambio, cosa che sa benissimo anche Trump, il quale non a caso ha attenuato la retorica contro Pechino.

Trump teme maxi-svalutazione dello yuan

Problema risolto? No. Secondo Kyle Bass di Hayman Capital Management, una svalutazione dello yuan nell’ordine del 30% sarebbe inevitabile. Il punto è che se avvenisse in un solo colpo, da un lato arresterebbe i deflussi, dato che non ci sarebbe più ragione per temere ulteriori perdite di valore della moneta cinese, dall’altro manderebbe allo scatafascio i mercati finanziari di tutto il mondo.

Se Trump tacciasse la Cina di manipolazione del cambio, la PBoC non avrebbe più motivo per difendere lo yuan e lo lascerebbe fluttuare più ampiamente di quanto non faccia in questi mesi, ma con la conseguenza di svalutarlo di diversi punti, l’esatto contrario di quello che chiede il presidente americano. Quest’ultimo si è reso conto, o forse lo ha sempre saputo, che la minaccia serve per dissuadere Pechino dall’ipotizzare una maxi-svalutazione, anche solo graduale, la quale renderebbe ancora meno competitive le merci delle economie avanzate.

Aldilà delle intenzioni dei cinesi, spazi ulteriori per la difesa del cambio potrebbero non esservene tanti. Dei 3.000 miliardi di dollari delle riserve, 1.000 sarebbero illiquidi, mentre altrettanti potrebbero servirne per salvare le banche locali. Ad occhio e croce, quando le riserve scenderanno intorno ai 2.500 miliardi, Pechino inizierà a svalutare lo yuan a piccole dosi giornaliere, l’unico modo che avrebbe per arrestare i deflussi. Da qui ad allora non dovrebbe passare molto tempo (un anno?) e dovremmo solo augurarci che non si tratti di una svalutazione a due cifre, perché avrebbe l’effetto di far schiantare i prezzi delle materie prime e di trascinare nuovamente le economie avanzate nella deflazione, oltre che in una possibile recessione, nel caso di disordini finanziari.

(Leggi anche: Petrolio, quotazioni 2017 risentiranno del rischio Cina)