La Federal Reserve quasi certamente aumenterà i tassi d’interesse anche a luglio, portandoli dal 5,25% al 5,50%. Sarebbe il livello più elevato dall’inizio del millennio. E non è neanche detto che sia l’ultima stretta monetaria. Il governatore Jerome Powell sta potendo mostrarsi più “falco” delle previsioni nei mesi scorsi, grazie all’elevata resilienza dell’economia negli Stati Uniti. L’occupazione continua a crescere, la disoccupazione resta ai minimi da oltre mezzo secolo e il PIL va. Ci sarebbero poche ragioni per non procedere con l’aumento dei tassi.

Se non ora, quando? Se segnali di rallentamento evidenti non se ne intravedono ancora per l’attività economica, d’altra parte aleggia lo spettro di una nuova crisi immobiliare.

Quindici anni fa, il crac di Lehman Brothers innescò una reazione a catena che portò nel giro di pochi giorni all’implosione dell’intera economia mondiale. Allora il problema scaturì dal collasso del mercato dei mutui cosiddetti “subprime”. Prestiti per comprare casa, concessi con estrema disinvoltura dalle banche negli anni dei bassi tassi d’interesse. Quelle condizioni non sembrano potersi ripetere, ma ci sono altri dati che preoccupano. Gli interessi medi sui mutui a tasso fisso della durata di 30 anni negli Stati Uniti sono saliti al 6,81% secondo l’ultima rilevazione settimanale della FED. A fine 2021, erano al 3,11%.

Boom rate mutui

Noi abbiamo messo insieme alcuni dati per mostrarvi quanto il rischio di una crisi immobiliare sia tutt’altro che un’ipotesi catastrofistica. Nell’ultimo trimestre del 2021, un mutuo medio era erogato al 68% del valore di mercato dell’immobile. A sua volta, questi era in media di quasi 425.000 dollari. Ai tassi di allora, la rata media di un mutuo trentennale risultava di poco superiore ai 1.200 dollari al mese. Questo importo equivaleva al 28% del salario medio di un lavoratore full-time.

Nel primo trimestre di quest’anno, i prezzi medi delle case negli States risultavano di quasi 437.000 dollari, pur in calo dal picco record del trimestre precedente, quando sfioravano i 480.000 dollari.

E il mutuo iniziale in media copriva il 75% del valore dell’immobile. Ai tassi attuali, la rata risulterebbe di circa 2.140 dollari. In altre parole, il monte-interessi totale è esploso da 155.000 ad oltre 440.000 dollari. Il peso della rata è salito al 45% dello stipendio medio di un lavoratore impiegato a tempo pieno.

Ora, dobbiamo considerare altri dati salienti. Negli Stati Uniti ad avere contratto un mutuo sono il 42% delle famiglie, pari a 51,5 milioni. Il loro indebitamento complessivo per i mutui ammonta a 10.440 miliardi di euro, circa il 40% del PIL e il 70% di tutti i debiti delle famiglie. A titolo di confronto, in Italia il mercato dei mutui vale attualmente intorno al 22% del PIL, poco più della metà rispetto agli Stati Uniti. Questo significa che l’impatto di un aumento dei tassi d’interesse tende ad essere molto più alto Oltreoceano. Certo, vero è che non tutti hanno accusato un aumento delle rate mensili. Non coloro che avevano contratto un mutuo a tasso fisso prima della stretta monetaria. E marginali i rincari per quanti avevano già un mutuo a tasso variabile in stato avanzato di ammortamento.

Crisi immobiliare o rischio crollo consumi

Ad ogni modo, queste cifre ci dicono due cose: o gli americani smettono di comprare case o continueranno a farlo, ma sacrificando una parte consistente dei loro consumi. In effetti, se il peso della rata passa dal 28% al 45% del reddito, significa che a disposizione avranno minori risorse per risparmiare e per consumare. A catena, ciò comporterà l’indebolimento della domanda interna e delle importazioni. Considerate che i consumi delle famiglie incidono per il 69% del PIL contro il 60% dell’Italia e il 54-55% della Germania. Il colpo per il sistema americano sarebbe durissimo.

In alternativa, come detto, gli americani smetterebbero di comprare case. Ciò farebbe crollare i prezzi medi di vendita, cioè i valori di mercato. Ed ecco che arriviamo alla crisi immobiliare, sinonimo di crisi bancaria. Primi segnali in tal senso si ebbero a ridosso della primavera, ma per effetto del crollo dei prezzi per gli asset finanziari in pancia agli istituti. Il meccanismo sarebbe simile. Se i prezzi delle case scendono, le banche vedrebbero svalutati gli asset a garanzia dei loro prestiti. Sarebbero costrette a ricapitalizzarsi e a tagliare le nuove erogazioni, finendo per colpire gli investimenti delle imprese e il sostegno agli acquisti di beni durevoli delle famiglie. Anche per questa via si arriverebbe al collasso della domanda interna e delle importazioni. A pagarne lo scotto sarebbe, dunque, anche il resto dell’economia mondiale, che l’anno scorso ha esportato negli Stati Uniti prodotti per 1.177 miliardi di dollari netti.

Powell non resterà insensibile dinnanzi ai primi scricchiolii seri del mercato immobiliare. I prezzi delle case sono già scesi di quasi il 10% in un solo trimestre. Se qualcosa di simile si fosse verificato anche nel trimestre passato, la fine della stretta sui tassi FED sarebbe nei fatti. Con buona pace della stabilità dei prezzi, che è solo uno dei due obiettivi ufficiali perseguiti dall’istituto insieme alla stabilità dell’occupazione. Ad essi si è aggiunta informalmente nell’ultimo decennio la stabilità finanziaria. Tutto fa brodo per giustificare il mantenimento dei tassi a livelli relativamente bassi.

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