In questi mesi di scontro tra Italia e fronte germanico su temi caldi come il MES e gli Eurobond e dopo la sentenza della Corte Costituzionale tedesca contro la BCE, molti euro-scettici in politica o anche accademici hanno trovato conferma del fatto che solo tornando alla lira saremmo nuovamente padroni del nostro destino. Con una moneta “sovrana”, potremmo stampare lire per finanziare la spesa pubblica senza preoccuparci dei limiti al deficit imposti da Bruxelles con il Patto di stabilità. Non avremmo più problemi di spread e le esigenze di tutti verrebbero soddisfatte.

Sembra troppo bello per essere vero e, a meno che non fossimo masochisti fino al midollo, restare nell’euro sembrerebbe una scelta obbligata, più che di amore vero.

Ritorno alla lira reso impossibile dagli italiani, non dalla BCE

C’è un primo errore che commettiamo quando pensiamo alla lira, ovvero di ritenere che non avessimo allora alcun vincolo monetario da rispettare. Nulla di più sbagliato. La lira italiana fu agganciata al dollaro dalla Seconda Guerra Mondiale fino al 1971 e indirettamente all’oro, così come tutte le altre valute dell’orbita occidentale. In quel quarto di secolo sotto l’Accordo di Bretton Woods, i tassi di cambio erano fissi, un po’ come oggi lo sono all’interno dell’Eurozona tra gli stati aderenti. Se un’economia perdeva competitività non poteva svalutare come falsamente tendiamo a credere, anzi le era impedito disancorarsi dal dollaro, altrimenti il sistema non avrebbe retto.

Lira italiana dal Secondo Dopoguerra

Perché le cose andarono per noi italiani molto bene, tant’è che quelli furono gli anni del boom economico e della stabilità valutaria? Proprio grazie alla stabilità offerta dai cambi fissi, che crearono un quadro internazionale favorevole al commercio tra stati dell’Occidente, beneficiando economie come Germania, Giappone e Italia, che crebbero anche a colpi di esportazioni.

Fallito Bretton Woods per i crescenti squilibri tra gli stati e l’impossibilità per gli USA di continuare a garantire la convertibilità del dollaro in oro, a causa delle elevate spese militari sostenute per la guerra in Vietnam, l’Europa piombò nel caos, a cui fu posto rimedio con la creazione del Sistema Monetario Europeo o anche noto come “serpente” monetario, in quanto i tassi di cambio potevano oscillare all’interno di un range, permettendo a ciascuno stato più flessibilità di prima, ma restando un sistema rigido.

Il ritorno alla lira dell’Italia e la bufala della Germania spaventata dalla nostra uscita dall’euro

All’Italia, che dagli anni Settanta ebbe problemi d’inflazione maggiori che altrove, fu concessa una maggiore fluttuazione del cambio contro le altre valute europee. Ma ciò non toglieva che la Banca d’Italia dovesse tendere all’equilibrio della bilancia dei pagamenti per evitare che eccessivi deflussi dei capitali intaccassero le riserve al punto da rendere impossibili le importazioni, facendo saltare il cambio. E così, i tassi d’interesse fissati a Roma per regolare la massa monetaria interna erano influenzati dalle decisioni adottate dalla Bundesbank. Se Francoforte alzava, Roma seguiva. A sua volta, la stessa Francoforte risultava influenzata dalle decisioni della Federal Reserve, la banca centrale della prima economia mondiale.

Dunque, la politica monetaria italiana fino all’alba dell’euro non fu davvero “sovrana” come la intendiamo oggi. Essa non poteva che risentire dell’inserimento dell’Italia in un più ampio contesto economico mondiale, dove l’influenza delle grandi nazioni capaci di attirare capitali domina le scelte dei “policy maker” nel resto del pianeta. Per intenderci, Bankitalia non poteva permettersi di abbassare i tassi mentre la Bundesbank li alzava, altrimenti i capitali sarebbero defluiti dall’Italia alla Germania, provocando il collasso del cambio. Vero è, poi, che i nostri tassi d’inflazione ben più elevati negli anni Settanta e Ottanta rispetto a quelli tedeschi comportavano la necessità frequente per Palazzo Koch di concordare con le principali banche straniere svalutazioni della lira, oggi definite a torto “competitive”, perché il loro compito non consistette realmente nel “fregare” i partner europei – era del resto vietato farlo – bensì di recuperare la perdita di competitività accusata per via della più alta crescita dei prezzi.

L’Italia con la nuova lira

Se l’Italia tornasse alla lira, non si ritroverebbe più né Bretton Woods e né lo SME, ma verosimilmente sarebbe costretta ad agganciare all’euro stesso o al dollaro per non finire in preda alla speculazione internazionale, essendo Roma priva di credibilità sul piano fiscale e della stabilità dei prezzi, oltre che dei cambi. Ma anche qualora dovessimo propendere per un divorzio netto, senza più legami con quel che resterebbe dell’Eurozona o gli USA, ugualmente Bankitalia non potrebbe fare di testa sua sui tassi d’interesse, perché i flussi dei capitali, oggi molto più che in passato, sono liberi di muoversi e si metterebbero in movimento verso altri lidi, se la politica monetaria italiana fosse disfunzionale, vale a dire se i tassi reali interni risultassero inferiori (e più inadeguati) che all’estero e le aspettative sul cambio fossero per ciò stesso negative.

L’idea di stampare moneta per fare deficit non ha mai funzionato, anzi ha provocato storicamente catastrofici dolorosissime, come l’iperinflazione nella Germania del 1923 o del Venezuela degli ultimi anni. Il mercato non acquisterebbe debito emesso da un Tesoro percepito lassista, per cui i rendimenti lieviterebbero, scontando un tasso d’inflazione più alto e un cambio debole (per gli investitori stranieri). L’unico reale beneficio di una moneta sovrana sarebbe che essa rispecchierebbe i reali fondamentali macro. E maggiori margini di autonomia potrebbero ricavarsi perseguendo una politica credibile e capace di attrarre capitali dal resto del mondo, ma ciò presuppone che l’odiata responsabilità economica diventi una stella polare dei nostri governi, accettata e condivisa da larghissimi strati dei cittadini-elettori.

Pertanto, politica monetaria e fiscale dovrebbero essere gestite all’insegna degli stessi criteri che oggi contestiamo vigorosamente, vale a dire tendendo a un bilancio ordinato da un lato e alla stabilità dei prezzi dall’altro, vincolandosi a non intervenire sui mercati valutari per svalutare il cambio. Dalla realtà non si sfugge, ce lo insegna l’Argentina.

La difficile lezione dell’Argentina, vicina al nono default della sua travagliata storia

[email protected]