Sono 20 anni dalla nascita dell’euro, 17 dalla sua introduzione fisica, eppure sembra che la moneta unica sia diventata più impopolare che mai, almeno in Italia. E’ opinione diffusa che sarebbe stata causa dei tanti mali della nostra economia, se non di tutti. Tuttavia, se tornassimo indietro con la memoria a quel 31 dicembre del 2001, ci ricorderemmo di un Paese scalpitante per l’arrivo dell’euro. Molti di noi ritirammo le nuove monete con qualche settimana di anticipo con i sacchetti distribuiti alle poste, scambiandole con le vecchie lire, pur di farci l’occhio.

Insomma, le premesse sembravano puntare a un matrimonio felice, mentre da allora la crisi coniugale è diventata sempre più forte, anche se nessuno si è rivolto al giudice per chiedere la separazione, forse consapevole che il rapporto dovrà durare in eterno, come quello sacro che s’instaura dopo una celebrazione religiosa e per il quale non è più ammesso alcun ripensamento.

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Ma l’euro non ha alcunché di sacrale, si tratta semplicemente di una moneta che unisce ad oggi 19 economie europee, che spaziano dalla Finlandia a Cipro, dal Portogallo all’Estonia. Come mai non lo restituiamo alla zecca di Francoforte e ci riprendiamo la nostra gloriosa lira? Perché non abbiamo avuto alcuna lira gloriosa. Anzi, nemmeno sovrana. Dimenticate i racconti nostalgici di quanti non hanno nemmeno vissuto quegli anni e che si affannano sui social a dimostrare quanto si stesse meglio quando si stava peggio. Qualcuno pubblica quasi compiaciuto quell’Oscar vinto dalla nostra moneta nel 1960, quando il Financial Times la premiò come la moneta più stabile del mondo. Vero, ma sarebbe come postare la foto in bianco e nero di una vecchia signora ben vestita, salvo nascondere che per quasi il resto della sua vita si sia conciata a dir poco male.

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Ai tempi dell’Oscar, per comprare un dollaro ci volevano 620 lire. Quando entrammo nell’euro, formalmente l’1 gennaio del 1999, di lire ne servivano ormai oltre 1.800, per cui in meno di 40 anni vi era stata una svalutazione dei due terzi. Nello stesso periodo, il rapporto contro il marco scese da 4 a 1,8, per cui la valuta tedesca si era rafforzata contro il dollaro del 55%. Cos’era accaduto? Che il combinato tra Banca d’Italia e Tesoro aveva ucciso la lira emettendone in quantità spropositata, così da finanziare la crescente spesa pubblica sin dalla seconda metà degli anni Sessanta. Inoltre, la stabilità fino agli inizi degli anni Settanta era stata garantita da Bretton Woods, cioè da un sistema monetario basato su cambi fissi contro il dollaro, a sua volta ancorato all’oro. Una sorta di super-euro di tutto il mondo occidentale, insomma, sebbene formalmente gli stati aderenti avessero monete “sovrane” diverse.

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Non a caso, quando Bretton Woods cessò di esistere e le singole valute furono abbandonate al loro destino, emersero le magagne, ovvero la diversa qualità delle governance nazionali si rifletté sui cambi e sulla gestione delle due crisi petrolifere di quegli anni. La lira implodeva e l’inflazione esplodeva, mentre il marco tedesco si rafforzava e i prezzi in Germania, tutto sommato, crebbero meno che altrove. La Bundesbank fece prevalere la propria ortodossia monetaria e Bonn, capitale provvisoria della ex Germania Ovest, spendeva nei limiti delle entrate, mentre a Roma si stappavano bottiglie di spumante, pensando di avere scoperto il sacro Graal per vivere sopra i propri mezzi illimitatamente e senza mai pagare il conto.

Perché fu fuga verso l’euro

Solo la famosa lettera di divorzio tra Tesoro e Bankitalia del 1981 tentò di porre fine all’incesto tra politica fiscale e monetaria entrambe iper-espansive.

Fu tardi e nemmeno sufficiente a ripristinare la fiducia nella lira e nelle istituzioni italiche, che già allora sui mercati finanziari, per quanto meno sviluppati di adesso, venivano trattate come fossero di serie b, con rendimenti stellari pretesi sui nostri titoli di stato, i quali arrivarono a incidere fino al 12% del pil nel 1993. Nessuno, nemmeno gli italiani, si fidavano più del governo e di Bankitalia e chi investiva in BoT e BTp pretendeva remunerazioni altrove impensabili, a doppia cifra pure per le scadenze brevi, anche perché dall’estero tutti sapevano che ogni tre e quattr’otto Roma avrebbe svalutato la lira, vuoi per risollevare le esportazioni, vuoi anche per la necessità di riallineare i tassi di cambio all’interno dello SME, rispetto ai differenziali d’inflazione.

Dalla lira, l’Italia fuggì, cercando di mettersi in salvo nell’euro, come chi pensava in cuor suo che ci saremmo nascosti dietro la moneta di tutti, evitando di continuare a pagare per decenni di errori commessi. E i risultati sono arrivati pressoché subito, con interessi crollati sui nostri bond, un cambio stabile che ci ha riparati sin dalla fine degli anni Novanta dalle turbolenze finanziarie e la necessità di condurre politiche fiscali prudenti. Peccato che questa dovesse essere la cornice di un quadro da riempire di riforme per modernizzare un’economia paralizzata da una burocrazia onnipresente e alquanto inutile, oltre che dannosa, spesa pubblica e pressione fiscale elevate e mercati poco concorrenziali e spesso occupati da realtà statali clientelari. Invece, una volta nascostici dentro il bunker dell’euro, ci siamo seduti. Questo era del resto il nostro obiettivo: trovare riparo contro le tensioni finanziarie e occidentalizzare i nostri standard macroeconomici.

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Gli italiani non si fiderebbero della lira

I nodi sono venuti al pettine con gli anni e quando il re è rimasto nudo, ecco che l’euro è diventato il parafulmine dell’ira popolare.

Tuttavia, ancora oggi, nonostante ciò, non esiste un solo sondaggio che segnali una maggioranza di italiani in favore del ritorno alla lira. In media, due italiani su tre si esprimono per rimanere nell’euro. Questo sottrae allo stesso governo “sovranista” di Giuseppe Conte quel consenso necessario per mettere realmente a punto il ventilato piano B del Prof Savona, ministro delle Politiche europee fino a qualche settimana fa e oggi presidente della Consob. La minaccia agli alleati dell’Eurozona di tornare al vecchio conio avrebbe le armi spuntate, per il semplice fatto che tutti sanno che gli italiani, così come i greci, non avallerebbero una simile scelta, malgrado tutti i sacrifici loro sollecitati per restare nell’unione monetaria.

Come mai? Gli italiani conoscono chi li governa e non si fidano di loro. Tutti o quasi abbiamo consapevolezza che tornare alla lira significherebbe non già la replica di fasti mai avvenuti in passato, bensì stampare banconote come se non vi fosse un domani per finanziare i larghi “buchi” di bilancio. Saremmo più indebitati, più poveri per via dell’alta inflazione e con il tempo ancora più stangati e in default. Pagheremmo i BTp a caro costo, avremmo un cambio esposto a ogni minimo raffreddore sui mercati internazionali per via della scarsa affidabilità percepita dell’Italia. Attenzione, hanno ragione da vendere coloro che sostengono che esista una vita all’infuori dell’euro, che non sia affatto vero che nell’era della globalizzazione bisogna rinunciare alla propria sovranità monetaria. Esempi come il Regno Unito, il Canada, il Giappone, l’Australia, la Svizzera, la Svezia, la Norvegia, la Corea del Sud, etc., lo dimostrano ampiamente.

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Impossibile minacciare il piano B

Il problema è che noi non saremmo nessuno di questi stati, bensì solamente un paese spendaccione, politicamente instabile, con istituzioni screditate che si auto-ridicolizzano ogni volta che sorge il sole e una gestione monetaria scriteriata. All’estero hanno imparato a conoscerci, tra di noi lo sappiamo sin dalla nascita quanto male ci governiamo. E l’esempio di questi mesi dello Zimbabwe non dovrebbe sfuggirci: milioni di cittadini sono infuriati contro il loro governo, reo di tentare di reintrodurre una moneta sovrana a 10 anni dall’iperinflazione, temendo che questa ritorni. La sfiducia sta traducendosi in una esplosione dei prezzi, conseguenza della svalutazione di fatto di uno strumento ambiguo di pagamento di cui tutti vogliono disfarsi il prima possibile. Qualcuno storcerà il naso dinnanzi a questo paragone, perché l’Italia non è (per fortuna) la ex Rhodesia. Vero, ma la psicologia di 60 milioni di italiani costretti a tornare alla lira non funzionerebbe in maniera troppo dissimile da quella dei 16 milioni di africani.

E’ triste ammetterlo, ma non ci trattiene davvero nessuno nell’euro; non la BCE con le sue minacce sui saldi del Target 2 da corrispondere all’istante nel caso di ritorno alle monete nazionali. E nemmeno la Germania sta complottando qualcosa per impedirci di riutilizzare le lire. L’unico freno è dato dalla conoscenza del destino tremendo che ci attenderebbe per un numero non indifferente di anni sul piano economico e finanziario, nonché dalla consapevolezza dei governi di turno che, ove si azzardassero a transitare l’Italia alla lira, sarebbero sanzionati dai cittadini a furor di popolo. Anzi, la rabbia per una decisione che colpirebbe i redditi fissi e i risparmi rischierebbe di degenerare in scene a cui crediamo di non dovere più assistere sul nostro territorio nazionale, ma che diverrebbero più che mai concrete. Gli italiani non si fidano delle loro istituzioni. Giusto o sbagliato che sia, questo non consentirà a nessun governo di minacciare seriamente Bruxelles, andando oltre una battuta da bar, di tornare alla lira. Siamo condannati a restare nell’euro, semplicemente perché siamo consci che con la lira saremmo capaci di fare peggio.

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