Banche centrali frustrate, dal Nord America al Giappone, passando per l’Europa. Nessun grande istituto sta riuscendo più da anni a centrare stabilmente il target d’inflazione, che un po’ ovunque si aggira sul 2%. Ieri, nel tentativo di riuscire nell’impresa, la Federal Reserve ha dovuto iniziare a tagliare i tassi, pur essendo stati alzati tra la fine del 2015 e il dicembre scorso solamente di 225 punti base al 2,50%, meno della metà dei livelli pre-crisi. E questo, nonostante l’economia americana versi in condizioni decisamente positive, specie se raffrontate con quelle del resto del mondo avanzato, tra piena occupazione e crescita ancora superiore al 2%.

Nell’Eurozona, la BCE non centra l’obiettivo da oltre 6 anni e segnala di avere perso la pazienza.

In teoria, tassi a zero o, addirittura, negativi dovrebbero spingere i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese. I risparmi, essendo poco o affatto remunerati, dovrebbero diminuire, mentre le imprese approfitterebbero dei bassi costi per indebitarsi. Nulla di tutto questo si sta verificando presso le economie avanzate e le banche centrali quasi non credono ai loro occhi, non spiegandosi come sia possibile, ad esempio, che in paesi come l’Italia i risparmi depositati in banca continuino a crescere e in Germania le famiglie continuino a non consumare.

Le banche centrali dovranno rivedere il target d’inflazione o perderanno credibilità

Eppure, una spiegazione a quanto stia avvenendo in questi anni potrebbe avercela fornita l’economista italiano e Premio Nobel, Franco Modigliani, quando nel lontano 1954 pubblicò insieme a Richard Brumberg la sua “teoria del ciclo vitale”, secondo la quale ciascun individuo tende a stabilizzare i consumi nell’arco della sua intera esistenza. Questa può suddividersi in tre fasi: una prima, in età pre-lavorativa, nel corso della quale si consuma più di quanto si guadagni e si viene sostentati dalla famiglia; una seconda, quella lavorativa, in cui si consuma meno di quanto si guadagni, risparmiando la differenza per la terza età, quella della vecchiaia, quando le entrate risulteranno insufficienti a coprire le spese.

Implicazioni da teoria del ciclo vitale

Dunque, i lavoratori di oggi risparmierebbero per garantirsi una vecchiaia dignitosa, quando verosimilmente percepiranno pensioni insufficienti. Ora, immaginate di puntare all’obiettivo di mettere da parte una cifra totale di 100.000 euro. Confidando in tassi d’interesse del 2% all’anno, vi servirebbe accantonare oggi circa 67.300 euro. Se, invece, i tassi scendessero all’1%, la cifra da risparmiare oggi per raggiungere tra 20 anni i 100.000 euro salirebbe a quasi 82.000 euro. Il calcolo è volutamente semplice, ma ci basta per capire che minori i tassi d’interesse, maggiori i risparmi necessari per accumulare una data somma per il futuro.

E questo starebbe avvenendo in questi anni in Europa e Giappone, in particolare, e in misura minore negli USA. Anziché prendere la palla al balzo per consumare ancora di più, le famiglie starebbero stringendo la cinghia, consapevoli che dovranno compiere maggiori sacrifici per assicurarsi una buona vecchiaia. Per paradosso, risparmiano di più, non di meno. E a maggior ragione che i governi tagliano la spesa previdenziale, inasprendo i criteri per accedere alla pensione e riducono gli importi degli assegni per far fronte a una vera emergenza demografica.

Sempre secondo la teoria del ciclo vitale, non saranno misure temporanee di politiche fiscale a impattare positivamente sui consumi. Servono aumenti della spesa pubblica o tagli delle tasse percepiti come strutturali, ossia coperti finanziariamente, per spingere le famiglie a consumare l’extra-reddito. E questo è un altro tassello che si aggiunge al puzzle e spiegherebbe il fallimento dei tassi a zero, segnalandoci come le azioni dei governi siano percepite perlopiù come poco credibili. Serve sì uno shock fiscale, ma non propagandistico o transitorio.

Equivalenza ricardiana e credibilità dei governi d’obbligo per tagliare le tasse

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