Da qualche mese si è acceso un dibattito ancora parzialmente sotterraneo in Europa sulla legge di stabilità del governo Renzi, che non ha potuto ricevere l’imprimatur della Commissione europea, la quale ha rinviato alla primavera prossima il suo giudizio, in attesa di valutare meglio i dati. Ha fatto parecchia impressione a Bruxelles il fatto che Matteo Renzi abbia presentato una manovra finanziaria di una trentina di miliardi di euro, di cui la metà in deficit. Avvalendosi della flessibilità richiesta e ottenuta, il premier ha annunciato anche il varo di un piccolo taglio delle tasse, tra cui quello dell’ex IMU sulle prime case.

L’irritazione dei commissari è stata palpabile, perché sui conti pubblici viene concessa dalla UE flessibilità, solo al fine di realizzare quelle riforme strutturali con effetti spesso di medio-lungo termine, che pesano politicamente e anche economicamente spesso nel breve. Renzi ha mostrato, invece, non solo di avere “abusato” delle concessioni europee, ma di volere scardinare un paradigma, come il premier stesso ha voluto precisare ai suoi parlamentari, nel corso di un’assemblea del PD, quando ha dichiarato che “le tasse si tagliano in deficit, altrimenti non potrebbe tagliarle mai nessuno”.        

Taglio tasse in deficit o no?

L’idea è stata in passato largamente condivisa, anche se non attuata, da un altro premier italiano, Silvio Berlusconi, che dal suo ingresso in politica nel 1994 ad oggi ha fatto del calo della pressione fiscale il principale cavallo di battaglia. Anche l’ex premier sosteneva quella che definisce l’equazione della ricchezza (meno tasse = più consumi = più occupati e più crescita = più gettito fiscale). A differenza dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi, però, Berlusconi si limitò a sbandierare all’Europa i presunti effetti benefici di un taglio delle tasse in deficit, senza di fatto attuarlo. Sorge spontanea una domanda: le tasse vanno tagliate in deficit o tagliando contestualmente la spesa pubblica e/o incrementando altre entrate? A tale quesito risponde la cosiddetta “equivalenza ricardiana”, ovvero la teoria abbozzata agli inizi dell’Ottocento da David Ricardo e negli anni Settanta del Novecento meglio definita da Robert Barro, secondo i quali per gli individui sarebbe neutrale la scelta dei governi tra le 2 opzioni.

Infatti, in base alla loro teoria, se un governo tagliasse le tasse in deficit, il contribuente saprebbe che il beneficio sarebbe temporaneo, in quanto la misura si tradurrà in un aumento del debito, quindi, nella necessità in futuro di aumentare nuovamente le tasse. Dunque, a fronte di un taglio delle tasse oggi si avrà un aumento delle tasse domani. Ne consegue che i consumi non dovrebbero aumentare, nemmeno se ci si aspettasse un aumento delle tasse nel lungo periodo, perché l’equivalenza ricardiana si fonda sul principio di solidarietà intergenerazionale. In sostanza, anche se il contribuente dovesse avvertire che le tasse tagliate in deficit saranno ri-aumentate molti anni dopo, egli tenderebbe a risparmiare ugualmente i vantaggi ottenuti, devolvendoli ai figli, in modo da risarcirli dell’onere che incomberà su di loro.        

I fautori dei tagli in deficit

Sulla base dell’equivalenza ricardiana, ad esempio, si sostiene che un paese con un alto livello di indebitamento pubblico tenderebbe ad accumulare alti risparmi privati. Ciò sarebbe dovuto alla consapevolezza delle famiglie che quel debito dello stato dovrà prima o poi essere rimborsato dai figli e dai nipoti, ai quali saranno devoluti generosi lasciti, proprio in considerazione dell’aggravio a cui andranno incontro. Possono apparire concetti abbastanza teorici, ma negli anni Ottanta e seguenti, il caso dell’Italia sembrò confermare la tesi: a fronte di un rapporto debito/pil spaventosamente alto, la ricchezza privata accumulata dalle famiglie era altrettanto elevata.

Dunque, se il governo tagliasse le tasse in deficit, il rischio è che non solo si creerebbe un buco di bilancio, che in futuro dovrà essere colmato con altre imposte o comunque con risparmi di spesa, ma anche che non si verifichi quell’impatto positivo sull’economia, a causa della scarsa influenza sui consumi. D’altra parte, la scuola keynesiana sostiene che proprio il carattere espansivo di una misura fiscale stimolerebbe l’economia. Se si coprisse il taglio delle tasse con risparmi di spesa, infatti, il beneficio sarebbe attenuato o anche azzerato, poiché da un lato si libererebbero risorse in favore delle famiglie, dall’altro si ridurrebbe proprio il loro reddito complessivo. Il risultato netto potrebbe essere anche negativo, secondo questa impostazione, se la riduzione delle tasse andasse a beneficio di contribuenti con una minore propensione al consumo (redditi medio-alti) di quelli a cui è stato sottratto reddito con i tagli della spesa pubblica.        

Le eccezioni alla teoria di Barro-Ricardo

A gettare benzina sul fuoco c’è la constatazione che non tutti i contribuenti avrebbero un orizzonte temporale infinito. Alcuni di loro, infatti, potrebbero venir meno al concetto di solidarietà intergenerazionale, ad esempio, in quanto nuclei familiari senza figli. Per non parlare di quanti siano affetti dai vincoli di liquidità, ossia abbiano redditi insufficienti, per cui un taglio anche temporaneo delle tasse li stimolerebbe ad aumentare nell’immediato i consumi, noncuranti delle conseguenze di lungo periodo sui conti pubblici. Gli studi più dettagliati sull’efficacia dei tagli delle tasse riguardano l’economia americana, dove negli anni Ottanta, la politica fiscale del presidente Ronald Reagan con l’abbassamento delle aliquote sui redditi avrebbe registrato una propensione al consumo di circa il 90% del reddito liberato. In sostanza, per ogni dollaro in meno di tasse pagate, gli americani spesero circa 90 centesimi. Un esito straordinario, che non ha avuto un riscontro simile in nessuno dei tagli delle tasse nei decenni successivi.

Non in quello temporaneo sotto la presidenza di George Bush senior, quando l’effetto risultò dimezzato, né in quello del 2001 sotto George W.Bush, quando ammontò a un quarto di 20 anni prima. Ma perché il taglio delle tasse sotto Reagan fu più efficace nello stimolare i consumi e la ripresa dell’economia americana, nonostante fosse stato annunciato? In effetti, il suo successo smentì la teoria del ciclo vitale, secondo cui gli individui avrebbero una propensione al consumo costante lungo il corso della loro esistenza, tranne nei casi in cui fossero colti di sorpresa da variazioni di reddito.        

Il caso americano

Ebbene, si direbbe che la maggiore efficacia della “reaganomics” potrebbe essere frutto di più fattori: in primis, fu realizzata dopo la potente recessione di inizio anni Ottanta, per cui si potrebbe presumere che il taglio delle tasse del 1983 fu colto dalle famiglie come l’occasione per riprendere a consumare; fu ritenuta una politica economica credibile, perché il governo si era impegnato a tagliare contestualmente la spesa pubblica e ad abbattere il deficit e l’inflazione. Dunque, sarebbe stata la maggiore credibilità l’elemento trainante della ripresa dei consumi, mentre dagli studi emerge che le famiglie affette da vincoli di liquidità non solo non avrebbero speso maggiormente i dollari risparmiati dalle minori tasse, ma persino meno della media generale. Che cosa ci segnala questo brevissimo excursus della teoria di Barro-Ricardo e degli studi sulle politiche fiscali espansive? Che la credibilità dei governi resta essenziale per l’ottenimento di un beneficio visibile sull’economia. Se i contribuenti avvertissero che le tasse fossero loro tagliate in deficit, intravedendo un aumento in furturo, non ripartirebbero né i consumi, né gli investimenti. E l’Italia ha un grosso problema di credibilità, trattandosi dello stesso paese, in cui 2 anni fa fu sbandierata la cancellazione dell’IMU, salvo scoprire pochi giorni dopo che all’imposta si fosse solo cambiato il nome. Più in generale, gli italiani non nutrono grossa fiducia sulla capacità dei loro governi di tagliare stabilmente la spesa pubblica, perché sanno che larga parte dei consensi politici si fondano su di essa. Pertanto, pensare che senza risparmi di spesa ci si possa mostrare credibili verso famiglie e imprese è un azzardo. Renzi non avrebbe un problema con l’Europa, ma con l’economia privata italiana, che gli potrebbe voltare le spalle.