L’Italia ha dato finalmente l’OK alla riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), anche noto come Fondo salva-stati. Esultano tutti i governi dell’Eurozona e, in particolare, quello tedesco, il cui ministro delle Finanze, Olaf Scholz, l’altro ieri ha commentato a caldo sostenendo che si tratterebbe di un passo in avanti per l’integrazione tra gli stati dell’euro. Anzitutto, cos’è il MES? Nato all’indomani delle crisi dei debiti sovrani nell’area, è un fondo inter-governativo con sede nel Lussemburgo e con una capacità di prestiti fino a 500 miliardi di euro.

Di questi, 80,5 miliardi sono il capitale effettivamente versato, di cui 14,33 miliardi dall’Italia. La sottoscrizione complessiva del nostro Paese è di 125,4 miliardi.

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Il MES nasce con una logica precisa, vale a dire di risolvere più velocemente le crisi sovrane scatenatesi per effetto di shock esterni, anzi punta a sventarle sul nascere. Esso possiede due linee di credito: il Precautionary Conditioned Credit Lines (PCCL) e l’Enhanced Credit Line (ECL). La riforma di questi giorni riguarda la prima linea, non anche il cosiddetto “MES sanitario”, informalmente approvato nella scorsa primavera e rimasto inutilizzato, che si differenzia dalle linee di credito di cui sopra per l’assenza di condizionalità, salvo quella che i fondi erogati ai governi vengano impiegati “direttamente o indirettamente” per la sanità.

Con la riforma, il governo che richiede assistenza finanziari attraverso il PCCL non sarà più tenuto a sottoscrivere un memorandum d’intesa com’è accaduto, ad esempio, alla Grecia fino ad oggi. Basterà una lettera di intenti, nella quale s’impegni a rispettare gli stessi criteri di eligibilità previsti sinora. Quali sono?

  • Rapporto deficit/PIL non superiore al 3% nei due anni prededenti;
  • saldo strutturale pari o superiore a uno specifico parametro per ciascuno stato;
  • debito pubblico non superiore al 60% del PIL o riduzione del rapporto di almeno un ventesimo all’anno rispetto al 60% nei due anni precedenti (previsione contenuta anche nel Fiscal Compact).

 

Il possibile boomerang con le CACs

Ora, è vero che la forma muta in direzione meno rigida, ma la sostanza rimane invariata.

La lettera d’intenti prende il posto del memorandum, ma l’Italia rischierebbe non solo di essere sottoposta ugualmente a una sorta di commissariamento del MES, bensì anche di non potervi accedere. Considerate, ad esempio, che la regola della riduzione del rapporto debito/PIL per un ventesimo all’anno rispetto al 60% non è stata quasi mai rispettata dal nostro Paese. Di certo, non negli ultimi anni.

Altro capitolo sensibile riguarda le CACs o Clausole di Azione Collettiva. Esistono in Europa fin dal 2013 e il Fondo Monetario Internazionale le considera sempre più necessarie per gestire ordinatamente eventuali crisi di debito degli stati. Esse consentono ai governi di rinegoziare le condizioni pattuite sui titoli di stato emessi, purché in presenza di un’approvazione dei creditori con doppia maggioranza (“double-limb”): quella dei singoli titoli e quella della generalità dei titoli. Con la riforma, si passerà a un sistema “single-limb”, cioè sarà sufficiente ottenere il via libera da parte della maggioranza degli obbligazionisti con riferimento alla generalità dei titoli. In questo modo, si vuole evitare la formazione di minoranze di blocco su questa o quell’emissione, che nei fatti renderebbe meno efficace la ristrutturazione.

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In teoria, una buona notizia per i governi, nella pratica sarebbe tutto da verificare. Il mercato potrebbe scontare un maggiore rischio di ristrutturazione a carico dei titoli emessi da stati molto indebitati e pretendere un rendimento più alto. Per contro, si potrebbe eccepire che proprio la riforma delle CACs nel senso più favorevole ai governi lascerebbe intravedere minori difficoltà e costi nei casi di ristrutturazione.

A seconda di quale previsione prevalga, il risultato sarebbe diverso. Il rischio per l’Italia consiste nel vedere trattati sui mercati i BTp come titoli di seconda scelta, a causa della relativa facilità con cui teoricamente il nostro governo rinegozierebbe i termini delle emissioni. Non solo. Qualcuno prima o poi si chiederebbe se la riforma non sia stata voluta dagli stati proprio per arrivare a una ristrutturazione dei debiti più rischiosi, per cui il segnale lanciato ai mercati si rivelerebbe devastante.

Cambia più la forma che la sostanza

Infine, senz’altro positiva è la riforma che riguarda le banche. Il MES anticipa di due anni, cioè al primo gennaio 2022, l’entrata in vigore del “backstop” a sostegno del Single Resolution Fund (SRF), il fondo di risoluzione bancario, per il caso in cui questi esaurisse le risorse disponibili per i salvataggi bancari. La sola esistenza del “backstop” dovrebbe stanare sul nascere attacchi speculativi contro le banche dell’Eurozona. Manca il completamento dell’unione bancaria, rimanendo assente la garanzia unica sui depositi, fortemente respinta ad oggi da Germania e alleati del Nord Europa, timorosi di caricarsi delle perdite accusate dalle banche del Sud Europa.

In definitiva, la riforma presenta luci e ombre e, soprattutto, non scioglie il nodo delle modalità di accesso all’assistenza del MES. E il punto che convince forse meno è quello in cui la riforma assegna una maggiore rilevanza al fondo rispetto alla Commissione, nel caso di discordanza sulla sostenibilità del debito di uno stato. Bruxelles sarebbe responsabile dell’analisi, il MES della valutazione sulla capacità dello stato di rimborsare i prestiti. Ma questo significa che l’unico organo semi-politico tra i due perderebbe peso a favore di un organismo prettamente tecnocratico e, in quanto tale, meno incline ai compromessi. Nell’insieme, emerge una riforma che potremmo riassumere così: niente memorandum per ottenere aiuti, ma rinegoziazione del debito per renderlo sostenibile agli occhi del MES.

La clausola che specificatamente prevedeva tale passaggio venne cancellata un anno fa per le resistenze politiche italiane, anche se la sostanza sembra essere rimasta grosso modo la stessa.

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