Si chiamano “clausole di azione collettiva”, in sigla CACs, e sono state introdotte a partire dal gennaio 2013 in tutta l’Unione Europea, pur essendo ignote a gran parte degli stessi piccoli investitori che acquistano titoli di stato all’atto della loro emissione o sul mercato secondario. Contrariamente a quanto pensiamo, negli ultimi anni la disciplina sui bond sovrani è stata resa più flessibile in tutta Europa, al fine di consentire con minori difficoltà del passato agli stati nazionali di ristrutturare i loro debiti nel caso si rendesse necessario.

Un assaggio si ebbe ancor prima che la nuova disciplina entrasse in vigore ed esattamente con l’applicazione retroattiva in Grecia della ristrutturazione di titoli di stato per un controvalore nominale complessivo di 200 miliardi di euro. Tali bond furono decurtati del 53,5% e allungati nelle scadenze tra gli 11 e i 20 anni. Grazie a tale “haircut”, Atene risparmiò 107 miliardi di euro. La scure colpì i soli bond posseduti dagli investitori privati, non anche quelli in mano alla BCE, all’Efsf e al Fondo Monetario Internazionale, ossia i creditori pubblici facenti parte della cosiddetta Troika.

Le CAC consentono agli emittenti europei di: ridurre il valore nominale del titolo alla scadenza (“haircut”); allungare le scadenze dei titoli (“roll-over”); modificare il metodo di calcolo di qualsiasi pagamento relativo ai titoli; cambiare la valuta di rimborso dei titoli alla scadenza e/o con cui venga effettuato qualsiasi pagamento in relazione al titolo; modificare ogni altra condizione sugli obblighi di pagamento da parte dell’emittente.

Avete letto bene: in teoria, lo stato può fare dei titoli di stato che avete acquistato quello che vuole. Attenzione, però, perché esso è tenuto, ad ogni modo, a rispettare alcune condizioni. Anzitutto, sono soggetti alle CACs i titoli di stato emessi con durata superiore ai 12 mesi (sono esclusi, quindi, i BoT) a partire dall’1 gennaio 2013, ossia BTp, BTpi, CcT, CTz e BTp Italia.

Secondariamente, le clausole potranno essere applicate fino al 45% delle emissioni di un anno. Terzo, bisogna ottenere il via libera di una maggioranza qualificata di investitori, che varia da un minimo del 50% a un massimo del 75% e su cui torneremo tra poco. Ne consegue che dovremmo riporre attenzione non solo alle cedole e ai rendimenti, quanto anche alle condizioni e alla data di emissione dei titoli. In teoria, un bond gravato dalle CACs renderebbe di più, ceteris paribus.

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Esempio di ristrutturazione con le CACs

Dunque, il Tesoro italiano, così come ogni altro emittente della UE, nel caso in cui avesse difficoltà ad ottemperare alle scadenze, potrebbe sottoporre agli investitori la richiesta di modifica delle clausole contrattuali, pretendendo: il taglio del valore dei titoli, l’allungamento delle scadenze, la riduzione e/o il rinvio dei pagamenti delle cedole, la conversione dei titoli in un’altra valuta nel caso l’Italia uscisse dall’euro, la modifica del metodo di calcolo di ogni tipo di pagamento dovuto, etc. Facciamo un esempio: il signor Mario Rossi ha acquistato 100.000 euro in BTp a 5 anni emessi nel gennaio 2015 e che scadranno nel gennaio 2020 con cedola 2%. A causa del deterioramento delle condizioni finanziarie statali, il Tesoro chiede e ottiene dai creditori le seguenti modifiche: riduzione del valore nominale del 20%, allungamento delle scadenze di 5 anni e dimezzamento delle cedole. Cosa accadrà? Mario Rossi alla scadenza non si vedrà rimborsare i 100.000 euro nominali acquistati nel 2015, ma solo 80.000 euro. In più, i BTp verranno rimborsati nel gennaio 2025 e le cedole annualmente versategli saranno dell’1% e non più del 2%.

Il Tesoro potrebbe anche modificare le condizioni di pagamento delle cedole legate all’inflazione, come nel caso dei BTpEi e del BTp Italia. Se un bond, ad esempio, fosse stato emesso con la promessa di un rendimento minimo garantito dello 0,5% + il tasso d’inflazione Foi relativo al semestre, si potrebbe subire una decurtazione del rendimento minimo erogato e/o del tasso d’inflazione riconosciuto, con quest’ultimo magari ad essere abbattuto di una certa percentuale.

E se l’Italia tornasse alla lira? I 100.000 euro di BTp nominali detenuti da Mario Rossi potrebbero essere convertiti dallo stato in lire e a un tasso di cambio potenzialmente a lui sfavorevole. Il cambio fissato a partire dall’1 gennaio 1999 fu di 1.936,27, per cui l’investitore avrebbe diritto a riscuotere 193.627.000 lire. Tuttavia, se nel frattempo la lira si svalutasse contro l’euro del 25%, salendo a un cambio di 2.600, il capitale rimborsato equivarrebbe al nuovo cambio solo a 74.472 euro. Insomma, subirebbe la svalutazione per intero.

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Le maggioranze richieste

Dicevamo, servono maggioranze qualificate. Se la richiesta dell’emittente riguardasse l’insieme dei titoli emessi a partire dal 2013, sarebbe necessario il voto favorevole del 75% del valore nominale dei bond rappresentati in assemblea o una risoluzione firmata dai possessori di almeno i due terzi dei bond in circolazione. Se, invece, la richiesta riguardasse la modifica a una o più serie, servirebbe il voto favorevole di almeno il 75% dell’ammontare dei titoli oggetto della modifica e rappresentati nelle separate assemblee, oppure una risoluzione scritta da parte dei possessori di almeno i due terzi dei bond oggetto della modifica e il voto favorevole dei due terzi dei bond oggetto della modifica e rappresentati nelle separate assemblee o una risoluzione scritta e firmata dai possessori di almeno il 50% dei titoli di ciascuna serie oggetto della modifica.

Non sarebbe semplice arrivare a tali maggioranze, anche se la crescente nazionalizzazione del debito pubblico rende teoricamente le cose più semplici per il Tesoro. Si consideri che banche e assicurazioni italiane detengono complessivamente circa 700 miliardi di titoli di stato, un terzo del totale circolante.

Guardando alle singole emissioni, si arriverebbe agevolmente a una maggioranza qualificata favorevole alla ristrutturazione, le cui condizioni verrebbero così subite anche dalla minoranza dei creditori ostile alle modifiche. Perché mai gli investitori istituzionali dovrebbero accettare di subire perdite? Essendo creditori di peso, otterrebbero quasi certamente contromisure a loro favorevoli, magari sul piano fiscale e regolamentare. Inoltre, trattasi di investitori “di sistema”, che avrebbero tutta la convenienza a mantenere stabile l’Italia contro possibili scossoni finanziari devastanti. Infine, potrebbero accettare una ristrutturazione solo dietro alla promessa del governo di imporre una patrimoniale a carico delle famiglie, la cui ricchezza è stimata in quasi 9.000 miliardi, immobili inclusi. Difficile, infatti, che i creditori accettino di essere “espropriati” di parte dei loro investimenti senza che prima mettano mano al portafogli proprio i contribuenti italiani, che nelle classifiche internazionali figurano tra i più benestanti al mondo.

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