Il Consiglio dei ministri straordinario di ieri ha esitato una decisione a dir poco sorprendente, sebbene fosse nell’aria sin dalle prime ore della giornata. E’ stato il premier Giuseppe Conte ad avere annunciato che il governo italiano sta avviando le procedure per la revoca della concessione autostradale ad Autostrade per l’Italia, la società per azioni controllata al 100% da Atlantia, la holding della famiglia Benetton. Immediata la replica della concessionaria, che si dice pronta a dimostrare di avere operato nel pieno rispetto del contratto di servizio, con un monitoraggio trimestrale da parte delle strutture tecniche del ponte Morandi a Genova, crollato alla vigilia di Ferragosto, provocando la morte accertata di 39 persone, tra cui 3 bambini, nonché decine di dispersi, su molti dei quali le probabilità di ritrovarli in vita sono ridotte al lumicino.

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Siamo allo scontro tra governo e società concessionaria. I due vice-premier sono andati giù pesante contro Autostrade per l’Italia, con Luigi Di Maio che ha rassicurato che “per la prima volta c’è un governo che non ha preso soldi dai Benetton”, minacciando una multa da 150 milioni contro la società di questi ultimi. E Matteo Salvini aveva sostenuto prima del cdm che la revoca della concessione sarebbe stato il provvedimento minimo da adottare.

Eppure, la decisione del governo rischia di pesare sulle tasche dei contribuenti. Paradossale che possa sembrare (lo è), il contratto che lega stato e concessionario recita che “fermo restando il subentro del Concedente in tutti i rapporti attivi e passivi di cui è titolare il Concessionario … l’indennizzo/risarcimento di cui al comma 1, dovuto dal Concedente al Concessionario, sarà pari a un importo corrispondente al valore attuale netto dei ricavi della gestione, prevedibile dalla data del provvedimento di recesso, revoca o risoluzione del rapporto, al netto dei relativi costi, oneri, investimenti ed imposte prevedibili nel medesimo periodo, scontati a un tasso di rendimento di mercato comparabile e maggiorato delle imposte che il Concessionario dovrà corrispondere …”.

Al primo comma, il dettaglio raccapricciante: “il Concessionario avrà diritto … a un indennizzo/risarcimento in ogni caso di recesso, revoca, risoluzione, anche per inadempimento del Concedente, e/o comunque cessazione anticipata del rapporto di Convenzione pur indotto da atti e/o fatti estranei alla volontà del Concedente, anche di natura straordinaria e imprevedibile, ivi inclusi mutamenti sostanziali del quadro legislativo o regolatorio”.

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In sintesi, lo stato ha tutto il diritto di revocare la concessione ad Autostrade per l’Italia, ma anche nel caso in cui lo facesse per inadempienza di quest’ultima, sarà tenuto a pagarle una penale, che è pari agli utili stimabili alla data della revoca per il periodo residuo fino alla fine del contratto, scontati al tasso di mercato. Poiché la concessione è stata prorogata nel 2007 fino al 2042, il governo dovrebbe risarcire la concessionaria di 20 anni di mancati utili, i quali si possono stimare, sulla base dei 968 milioni iscritti a bilancio nel 2017, in 15-20 miliardi di euro. Tanto dovremmo versare noi come contribuenti ad Autostrade per l’Italia per rescindere il contratto per inadempienza. Siamo alla follia, ma tant’è. Come dire, non hai fatto bene il tuo lavoro, la mancata o insufficiente manutenzione potrebbe essere stata causa della tragedia di Genova, seguita ad altre tragedie meno eclatanti per numero di vittime degli ultimissimi anni e, tuttavia, verrai risarcito con la corresponsione anticipata di 24 anni di presunti utili. In teoria, ai Benetton converrebbe proprio l’ipotesi della revoca della concessione, visto che metterebbero mano, quota parte, ai 15-20 miliardi che avrebbero maturato nell’arco dei prossimi quasi 2 decenni e mezzo. Un premio alla inefficienza, se non alla malafede contrattuale vera e propria.

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E’ evidente che il governo che ha sottoscritto un simile contratto tramite l’Anas sia stato o del tutto stralunato o in evidente stato di soggezione rispetto al mondo dei concessionari. Del resto, per capire che qualcosa non vada bisogna aggiungere che parti del medesimo contratto risultano coperte da segreto di stato, che il governo Conte punta a rimuovere. Pertanto, siamo dinnanzi a un monopolio naturale – così lo si definisce in economia – trasferito alla fine degli anni Novanta dallo stato a un privato, attraverso la sottoscrizione di un accordo parzialmente segreto e che si palesa a tutti gli effetti come un contratto-capestro ai danni del concedente. Nessuna logica vi starebbe dietro all’ipotesi di pagamento di una lauta ricompensa persino nei casi in cui la revoca fosse effettuata per inadempienza. Qui, il libero mercato non c’entra nulla, perché siamo in presenza di una privatizzazione in stile post-sovietico, quando i gioielli di stato a Mosca furono ceduti per spiccioli a gruppi di imprenditori in erba o nemmeno tali vicini al Cremlino, creando la tristemente nota classe degli oligarchi, estranei per cultura al capitalismo e alle sue logiche.

Le privatizzazioni avviate dal centro-sinistra in Italia un ventennio e passa fa sono ispirate da meccanismi non dissimili e si sono rivelate fallimentari. Un altro caso lampante lo è Telecom, che il governo Gentiloni stesso, non quello “populista” di Lega e 5 Stelle, ha cercato di ricondurre sotto il controllo dello stato con un blitz nell’azionariato, attuato a inizio anno tramite Cassa depositi e prestiti. E che dire di Alitalia, stavolta privatizzata dal centro-destra un decennio fa e ceduta senza debiti (rimasti in capo ai contribuenti) ai famosi “capitani coraggiosi”, che di coraggio ne hanno dimostrato poco e niente e di competenza ancora meno? Il dibattito di questi giorni tra neo-statalisti e fautori del mercato è fuorviante. Le autostrade italiane andavano liberalizzate, prima ancora che privatizzate.

Come? Mettendo a gara la gestione ogni 5, massimo 10 anni, creando così un meccanismo concorrenziale fondato sui prezzi offerti da ciascuna società per il pagamento dei pedaggi (oggi i più alti in Europa) e legato alla massa degli investimenti garantiti nell’arco della durata della concessione.

Serve vero mercato, non il ritorno allo stato

Nel caso attuale, invece, abbiamo che Autostrade per l’Italia ha fatturato nel 2017 per 3,7 miliardi, a fronte dei quali è stata in grado di maturare un margine lordo di 1,9 miliardi (51,4%) e un utile di 968 milioni, pari a oltre un quarto dei ricavi, percentuali del tutto anomale per una società “ordinaria”, indice di costi piuttosto contenuti, ovvero di sotto-investimenti, che fanno il paio con carente manutenzione. Attenzione, perché oltre ad Autostrade per l’Italia esistono altri 23 concessionari minori, capaci di fatturare nel 2016 complesso altri più di 3 miliardi di euro all’anno e di maturare altri 150 milioni di utili, a fronte di investimenti per appena poco più di un miliardo, dimezzati rispetto al 2012.

Senonché, qualcuno adesso ci spiegherà come la rete autostradale rispetterebbe i principi di concorrenza e che, anzi, in Italia risulterebbe persino eccessivamente frammentata. Questa seconda affermazione sarebbe del tutto vera, la prima falsa. I 24 concessionari si trovano nella posizione di detenere ciascuno un monopolio per la parte che gestisce, per cui la concorrenza non esiste. In un’ipotesi di accrescimento dell’efficienza, potremmo anche immaginare di arrivare a un’unica concessione o a una riduzione con l’accetta del numero dei concessionari, ma fermo restando che l’assegnazione delle tratte andrebbe individuata con una procedura di asta tra un numero sufficientemente elevato di offerte. A liberarci dalle pratiche collusive e dalla cattiva gestione dell’infrastruttura non sarà il ritorno al mito dello stato, bensì la creazione di un vero mercato libero e concorrenziale, ovvero l’avvio di privatizzazioni reali, che prendano il posto al trasferimento delle rendite monopolistiche a soggetti privati, meglio se amici del governo di turno. L’Italia deve uscire fuori dalla logica del capitalismo parassitario di stato, che ha mietuto decine di vittime innocenti alla vigilia di Ferragosto.

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