Il premier bulgaro Boyko Borissov ha annunciato che dal luglio prossimo, Sofia entrerà nella “sala d’attesa” dell’euro, un obiettivo che il piccolo stato dell’Europa orientale e il più povero della UE persegue da anni con estrema tenacia. Realisticamente, spiega, la Bulgaria entrerebbe nell’Eurozona dal 2023. L’anno seguente dovrebbe farvi ingresso la Romania. Se ciò accadesse, l’unione monetaria si allargherebbe a 21 stati. Nel 1999, quando la moneta unica nasceva virtualmente, erano in 12. Due anni dopo si aggiungeva la Grecia e negli anni seguenti fu la volta degli stati baltici (Lettonia, Lituania ed Estonia), di Malta, Cipro e Slovenia.

Sembra assurdo, ma proprio negli anni in cui si è dibattuto piuttosto apertamente della temuta fine dell’euro, la lista degli stati che vuole metterselo in tasca si è allungata, tanto che, nel caso di Sofia, è stata la Commissione UE ad avere frenato lo scorso anno, non considerando il paese pronto sul piano delle condizioni politiche e giuridiche a fare parte dell’area.

La crisi dell’Area Euro è grave come nel 2011?

Tutto questo, mentre ci sono membri frustrati dai problemi irrisolti dell’Eurozona; come l’Italia, in cui la maggioranza di governo è euro-scettica e farebbe il possibile per tornare alla lira. Come mai questo apparente paradosso? Forse, i pretendenti ad entrare nell’euro non sanno in cosa s’imbatteranno? Non pensiamo che siano sprovveduti, perché alla base di questo desiderio condiviso dalle rispettive opinioni pubbliche, vi sarebbe un calcolo fondato.

Prendiamo Romania e Bulgaria. La prima ha come moneta il leu, la seconda il lev. I rendimenti sovrani rumeni a 2 anni viaggiano al 3,6%, i decennali al 4,9%. In Bulgaria, i titoli a 1 anno rendono il -0,133% e quelli a 10 anni lo 0,83%, meno rispettivamente di BoT e BTp. E questo, quasi a parità di tassi d’inflazione, in entrambi i casi sul 3%, in questo periodo.

Si consideri, poi, come entrambe le economie posseggano bassi livelli di indebitamento pubblico, rispettivamente al 35% e al 25% del pil. Tuttavia, Bucarest ha fissato i suoi tassi al 2,5%, mentre Sofia li ha azzerati come la BCE. Perché questa differenza? Il lev è fissato all’euro da anni e questo ha eliminato il rischio di cambio.

I benefici di appartenere al club euro

In sostanza, la Bulgaria ha già avuto un assaggio positivo di quel che significherebbe per la sua economia appartenere all’Eurozona: tassi di cambio stabili verso il resto del mondo (contro dollaro, sterlina, yen, etc.) e tassi d’interesse relativamente bassi, a parità di inflazione. Queste condizioni determinano le premesse necessarie per attirare gli investimenti esteri da un lato e per stimolare quelli privati dall’altro. Una cosa sarebbe per le banche prestare denaro con i tassi di riferimento fissati al 4-5% in un periodo “normale”, un’altra farlo con interessi su percentuali magari doppie. Uno stato poco credibile sul piano della governance ha, infatti, la necessità di rassicurare i mercati con tassi d’interesse più alti di quelli che altrimenti sarebbero sufficienti per mantenere la stabilità dei prezzi e, di conseguenza, dei tassi di cambio.

Ritorno alla lira reso impossibile dagli italiani, non dalla BCE

Stati economicamente deboli come Romania e Bulgaria hanno convenienza ad adottare una moneta forte come l’euro, perché ciò consentirebbe loro di beneficiare di interessi bassi e di un cambio stabile, tenendo a bada l’inflazione con minori sacrifici. C’è il rovescio della medaglia? In teoria, soffrirebbero in futuro sul fronte delle esportazioni, visto che la moneta unica sarebbe più forte rispetto ai loro fondamentali. Vero, ma l’attrazione dei capitali esteri finirebbe forse per compensare del tutto tale svantaggio e l’effetto calmierante che l’euro avrebbe sui prezzi interni per altro verso ne sosterrebbe la competitività, abbassando i costi di produzione.

Si consideri, ad esempio, che le stesse materie prime verrebbero importate a prezzi più stabili e ridotti. Sul piano macro, la spesa per interessi in un paese come la Romania si abbasserebbe dal 4% medio a cui rende attualmente il debito pubblico, una percentuale relativamente elevata, nettamente maggiore del 2,8% a cui rende mediamente il debito dell’Italia, il cui stock eppure incide sul pil per quasi 100 punti in più.

Tuttavia, il sentore non è dappertutto uguale. In Svezia, l’ultimo referendum per l’adesione all’euro si tenne nel 2002 e vide la vittoria dei “no”. La corona svedese ha tutt’altra storia e reputazione sui mercati, rispecchiando un’economia molto forte, per cui gli scandinavi non trovano conveniente far parte di un club monetario esclusivo, semplicemente perché già sono percepiti sui mercati come una élite sul piano finanziario. Lo stesso dicasi per il Regno Unito, che nel 1992 decise di non entrare nell’euro, tenendosi gelosamente e con orgoglio la sterlina. Nemmeno Londra, oltre che per ragioni squisitamente politiche, trova di alcuno interesse privarsi di una moneta nazionale, quando già il pound sui mercati internazionali viene adottato persino per il trading di alcune materie prime, come il cacao. Fu per questo, ad esempio, che la Germania versò lacrime amare quando, su pressione degli alleati, fu indotta a rinunciare al marco tedesco, che per tre quarti di secolo aveva fatto la storia e segnato positivamente la sua economia. Per i tedeschi, mettersi in tasca l’euro significò adottare una moneta più debole e per questo ancora oggi continuano a temere che ciò finisca prima o poi per destabilizzare i prezzi interni e a deprezzare eccessivamente i tassi di cambio, gravando sul loro benessere.

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