Pasqua rappresenterebbe il giro di volta nella gestione dell’emergenza Coronavirus. Il governo italiano immagina una riapertura graduale delle attività produttive e commerciali e in tal senso arrivano forti pressioni dal mondo industriale, specie al nord, dove si teme che il “lockdown” prolungato finisca per decretare la chiusura definitiva di un numero elevato di imprese. I rischi più avvertiti sarebbero due: che più passano i giorni senza fatturare e meno sostenibili diventano i costi fissi; che nel frattempo si perdano fette di mercato, con i clienti a cercare all’estero fornitori alternativi.

La potente crisi italiana in cifre: sarà un primo semestre da far paura

E a crescere è anche la sofferenza di milioni di famiglie, impossibilitate ad andare avanti ancora per molto senza lavorare e, quindi, rimasti privi di entrate. In molti casi, è vero, arriverà loro l’assegno della Cassa integrazione, a copertura di gran parte del reddito perduto. In altri è il buono da 600 euro a coprire le esigenze più immediate per i lavoratori autonomi. Eppure, milioni di lavoratori in nero, scoperti anche dal reddito di cittadinanza, non godono di alcun sostegno. E solo al sud ammonterebbero a 3 milioni. Prendete questo calcolo per difetto.

Ci diciamo da decenni, non senza un pizzico di orgoglio, che siamo un popolo di santi, poeti, navigatori e risparmiatori. A guardare le giacenze in banca, non si direbbe certo che siamo poveri. La ricchezza complessiva sfiora i 10.000 miliardi, 5,5 volte il pil, un multiplo doppio rispetto alla Germania, dove eppure la disoccupazione è un fenomeno ormai quasi ignoto e i redditi medi sono più alti e in crescita costante rispetto a quelli italiani. Tutto vero, ma la nostra abbondanza la si deve essenzialmente ai bei tempi che furono. L’Italia guidava le classifiche mondiali del risparmio, affiancata dal Giappone, quando negli anni Ottanta circa un quarto del reddito nazionale veniva messo da parte.

Il crollo del risparmio dagli anni Novanta

Negli anni Novanta, quella percentuale si dimezzava e già alla crisi finanziaria del 2008 ci presentavamo con un dato intorno al 12%. Da allora, il risparmio medio pro-capite in Italia è crollato del 20%, mentre in Germania è cresciuto di oltre il 40% e in Francia del 17%. Il risparmio varia in funzione di due variabili: reddito e tassi d’interesse. Negli ultimi anni, i secondi si sono azzerati e, anzi, lasciare il denaro in banca significa ormai persino mettere in conto di intaccarlo nel tempo, a causa di commissioni, imposta di bollo e inflazione. Questo sostiene la propensione al consumo, un fenomeno che con l’avvicinamento prima e l’ingresso nell’euro dopo è stato certamente trainato dalla riduzione dei tassi reali. Si pensi alla possibilità oggi di fare un mutuo a costi notevolmente inferiori rispetto ai tempi della lira.

Ma se stiamo risparmiando da molto tempo, ormai, in misura decisamente minore rispetto a 10, 20 e 30 anni fa, non è solo e tanto per una questione di tassi, bensì di redditi. Negli anni Ottanta, lo stato creava “buchi” di bilancio al ritmo medio di anche oltre il 10% del pil, alimentando il debito pubblico, che nell’immediato si traduceva in redditi da lavoro dipendente, autonomo e pensioni. Ciò consentiva alle famiglie di risparmiare e spesso anche in proporzioni inimmaginabili altrove. L’italiano medio si mostrava in grado di farsi casa con pochi anni di lavoro e spesso già sotto i 30 anni di età.

Il ruolo delle tasse nella crisi secolare italiana

Quando s’iniziò a stringere la cinghia negli anni Novanta, essendo il debito pubblico divenuto insostenibile, lo stato non solo non spendeva più di quanto incassava con il prelievo fiscale, ma al netto degli interessi risparmiava, sottraendo ricchezza ai cittadini-contribuenti. E se fino ad allora la spesa per interessi era rimasta sostanzialmente all’interno dei confini nazionali, traducendosi in frutti dei risparmi investiti dalle famiglie, con l’arrivo degli anni Novanta la quota in mano a queste ultime si riduceva significativamente, fino a diventare irrilevante ai giorni d’oggi.

Dunque, gli alti deficit degli anni Settanta e Ottanta erano stati essenzialmente ricchezza immediata per gli italiani, la quale dal decennio successivo iniziava una graduale e inarrestabile erosione per pagare gli sperperi passati.

Problemi non finiti con la fine dell’emergenza

Nel frattempo, il declino economico italiano ha reso stagnanti i redditi, rimasti in termini reali ai livelli di metà anni Novanta. Il pil pro-capite con l’arrivo del Duemila non è più cresciuto, la pressione fiscale sì. I redditi disponibili sono diminuiti, il lavoro è diventato sempre meno stabile e mal retribuito e il risparmio adesso resta prerogativa della fascia più fortunata della popolazione, cioè anziani, dipendenti pubblici e redditi medio-alti del settore privato. Stiamo dicendo, cioè, che quella enorme liquidità depositata nei conti bancari e di cui orgogliosamente parliamo spesso non sia affatto ricchezza diffusa, ma concentrata in poche mani, con i genitori e i nonni a mettere da parte qualcosa e figli e nipoti, i quali spesso nemmeno riescono da soli a sostentarsi, anche da sposati.

Il Coronavirus ha parlato. Non solo ci siamo scoperti con una sanità che imbarca acqua da molte parti, quando pensavamo di essere al top nel mondo per capacità di reazione dinnanzi a qualsiasi scenario, ma ha messo a nudo tutte le criticità socio-economiche che non abbiamo avuto la forza come sistema Paese di affrontare da almeno due decenni a questa parte. E’ bastato meno di un mese di fermo per costringere il governo a intervenire con l’erogazione di buoni spesa attraverso i Comuni, un po’ come se fossimo in guerra. E sbaglia chi immagina che questa soluzione sia stata pensata solamente per la fascia povera degli italiani. In realtà, è frutto della paura che la parte più debole dello stesso “ceto medio” finisca in miseria, laddove per esso ormai intendiamo chi ha un lavoro, un reddito e poco più che sopravvive.

I problemi non saranno risolti del tutto con la fine dell’emergenza e il ritorno graduale alla normalità. La crisi avrà contraccolpi violenti sui posti di lavoro, sul mantenimento dei livelli di fatturato delle imprese e sugli stessi redditi. E se nel 2008 si veniva da un decennio, tutto sommato, accettabilmente stagnante, adesso non si potrà più tollerare alcun passo indietro nelle condizioni di vita, ridotte all’osso. Questo spingerà qualsiasi governo in carica nei prossimi anni a sostenere l’economia con un ricorso all’indebitamento, che francamente fatichiamo a comprendere come possa essere sostenuto, dati i livelli abnormi di partenza. Da qui, la ricerca della soluzione apparentemente “salvifica” degli Eurobond. A Roma hanno capito tutti che dopo il Coronavirus non ci potrà essere per un lungo periodo alcuna austerità fiscale, salvo mettere in gioco la tenuta dello stesso assetto democratico e istituzionale.

L’economia italiana non è in crisi, ma in depressione

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