Mariano Rajoy non è più da qualche giorno premier in Spagna, sfiduciato dalla Camera dei Deputati per la tangentopoli che ha travolto figure di spicco del suo Partito Popolare, la formazione di centro-destra al governo di Madrid dal 2011. Al suo posto si è insediato, grazie al meccanismo della sfiducia costruttiva, il socialista Pedro Sanchez, che può avvalersi di una maggioranza in assemblea con il supporto degli indipendentisti catalani, nonché da un atteggiamento di tolleranza, se non di apertura, di Podemos, lo schieramento della sinistra radicale, considerato populista anti-austerity e una minaccia per la permanenza della Spagna nell’Eurozona, nonostante il suo leader Pablo Iglesias non sia nitidamente ostile a Bruxelles o all’euro, sebbene non ne condivida le politiche fiscali, in particolare.

Catalogna indipendente non ci sarà, caos in Spagna sì

I rendimenti spagnoli sono anch’essi lievitati nei giorni precedenti alla formalizzazione del passaggio di testimone tra Rajoy e Sanchez, arrivando sulla scadenza a 10 anni dell’1,73% a inizio giugno, salvo ripiegare nelle sedute successive in area 1,35%, sostanzialmente attestandosi su livelli dimezzati rispetto a quelli italiani. In pratica, lo spread BTp-Bonos a 10 anni si aggira ormai stabilmente intorno a 130-140 punti base; una enormità, se teniamo conto che stiamo comparando i titoli del debito della terza e quarta economia dell’Eurozona. Come dire che i bond italiani starebbero allontanandosi pericolosamente persino dai mercati semi-periferici dell’area.

Com’è possibile che la crisi dei Bonos non abbia attecchito più di tanto a Madrid, nonostante il governo appena nato sia numericamente e politicamente fragile e destinato verosimilmente a durare non oltre le elezioni europee? E come mai i mercati non hanno punito la Spagna nemmeno quando ha avuto bisogno di ben due tornate elettorali tra il dicembre del 2015 e il giugno 2016 e un’attesa lunga 10 mesi per assegnare a Rajoy un secondo mandato? E’ l’economia, bellezza! Quella spagnola cresce a ritmi ormai superiori al 3% dal 2015, superando del tutto la crisi iniziata nel 2008 e protrattasi qui fino a al 2013.

Già alla fine dello scorso anno, il pil iberico risultava superiore a quello del 2008, ultimo anno di crescita prima del collasso, del 2,5%.

Lo spread tra Italia e Spagna

E c’è una differenza piuttosto vistosa tra la politica spagnola e quella italiana, che risiede nell’assenza di euro-scetticismo presso la prima. Podemos, dicevamo, rappresenta una minaccia per la permanenza della Spagna nell’euro, in quanto si fa portavoce di istanze socio-economiche poco compatibili con una gestione ordinata dei conti pubblici. Tuttavia, le sue posizioni appaiono più morbide persino di quelle di Syriza in Grecia, il partito del premier Alexi Tsipras già testato tre anni fa dalla UE e che è passato dall’essere strenuo oppositore a mero esecutore delle politiche di austerità fiscale ad Atene. I sondaggi, poi, danno il partito di Iglesias al 18% o persino meno, mentre fanno volare al 27% Ciudadanos, una formazione centrista pro-mercato guidata dal giovane Alberto Rivera, catalano ostile all’indipendenza. Sempre stando alle rilevazioni, insieme al PPE, con cui ha governato negli ultimi due anni, otterrebbe la maggioranza assoluta dei seggi, se oggi si tornasse a votare. In alternativa, se si alleasse con i socialisti, incasserebbe un numero di seggi persino potenzialmente superiore.

Dunque, nel futuro politico spagnolo non vi sarebbe spazio per governi euro-scettici, contrariamente alla realtà odierna dell’Italia, che vede proprio in questi giorni la nascita di un esecutivo penta-leghista, mai così ostile a Bruxelles nella storia repubblicana. E la politica non è causa, bensì conseguenza degli umori dei popoli. Per capire come mai il malcontento verso la moneta unica sia montato a livelli impensabili nel nostro Paese fino a pochi anni fa, mentre in Spagna sia rimasto praticamente marginale, nonostante un tasso di disoccupazione esploso fino a oltre il 26% nel 2013 e ancora si attesti al 16%, bisogna guardarsi indietro.

La Spagna è uscita dalla lunga dittatura franchista solo alla fine degli anni Settanta e si è sviluppata come economia moderna e avanzata nei decenni successivi, specie con l’ingresso nella Comunità Economica Europea del 1986. In pratica, la sua crescita come economia moderna è avvenuta sotto la UE e, in particolare, nell’era dell’euro. Prima dell’adesione formale alla moneta unica, il suo pil era più basso di quello odierno del 45% e uno spagnolo medio era nominalmente del 70% più povero. L’Italia sotto l’euro è cresciuta di appena il 13% e il reddito nominale medio da noi nel frattempo è aumentato di appena il 38%, poco più della metà di quello spagnolo. In sostanza, aldilà di cosa c’entri l’euro con il boom economico di Madrid e il declino di Roma, ci troviamo in una situazione per la quale gli spagnoli avrebbero ben poco da inveire contro di esso, mentre gli italiani potrebbero essere spinti a pensare, a torto o a ragione, che stessimo meglio con la lira. In ogni caso, uno spagnolo associa mentalmente l’euro e la UE con lo sviluppo, un italiano con la crisi. Ciò si rispecchia in condizioni politiche differenti nei due stati, che a loro volta segnalano ai mercati sviluppi differenti da qui al medio termine sul piano della gestione dei problemi dell’economia e dei rapporti con le istituzioni comunitarie. C’è uno spread di sentimenti e di fiducia tra italiani e spagnoli, ancor prima che di rendimenti sovrani.

Italia in declino, il sorpasso della Spagna parte da lontano e la Germania ci ha seminati

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