L’Italia è tornata in recessione dopo 4 anni e mezzo e per la terza volta dal 2008. Lo confermano le stime preliminari dell’Istat sul pil nell’ultimo trimestre del 2018, diminuito su base congiunturale dello 0,2%, più delle attese di un calo dello 0,1%. Poiché già si era registrato un dato negativo per il terzo trimestre, la recessione “tecnica” è divenuta realtà. Nell’intero anno, il pil è salito dello 0,8% in termini reali e corretto per gli effetti del calendario. Senza tenere conto del fatto che abbiamo avuto tre giornate lavorative in più rispetto al 2017, invece, la crescita è stata dell’1%.

Si tratta di un dimezzamento dal +1,6% dell’anno precedente. Inevitabile la polemica politica, con il vice-premier Luigi Di Maio ad avere dichiarato che “i governi del passato ci hanno mentito”, sostenendo che non ci avrebbero portato fuori dalla crisi e che la recessione sarebbe frutto del loro operato, non di quello del governo giallo-verde, le cui misure clou entreranno in vigore solo nei prossimi mesi.

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Sempre l’Istat, però, ci offre oggi qualche notizia positiva. Il tasso di disoccupazione a dicembre è diminuito dello 0,2% al 10,3%, grazie alla riduzione del numero delle persone in cerca di lavoro di 44 mila unità rispetto a dicembre (-1,6%). Tuttavia, tra i giovani di età compresa tra 15 e 24 anni risulta leggermente salito al 31,9% (+0,1%). E il tasso di occupazione è anch’esso migliorato, crescendo dello 0,1% al 58,8%, ai massimi da 10 anni, tornando ai livelli pre-crisi. Si è trattato di un aumento degli occupati di 23.000 unità su novembre e di 202.000 su base annua. La variazione mensile risulta positiva per i lavoratori a termine (+47.000), gli autonomi (+11.000) e negativa per i contratti stabili (-35.000). Quella annuale segna rispettivamente +257.000, +24.000 e -88.000.

Il dato controcorrente dell’occupazione

In tutto, a dicembre lavoravano in Italia 23 milioni 270 mila persone, di cui 14,81 milioni erano in possesso di un contratto stabile, 3,13 milioni di uno a termine e 5,33 milioni indipendenti (autonomi, liberi professionisti e imprenditori).

Nell’intero 2018, i lavoratori stabili sono diminuiti di 90.000 unità, quelli a termine sono aumentati di 260.000 e gli indipendenti di 30.000. Queste cifre ci dicono anche che su 39,575 milioni di persone in età lavorativa, 16,3 milioni non lavorano e 13,9 milioni nemmeno cercano un’occupazione attivamente, restando tra l’ampia platea dei cosiddetti “inattivi”, i quali incidono per oltre un terzo del totale, al 34,3%. Tenendo conto che la popolazione residente nello Stivale si attesti sui 59,25 milioni di abitanti, significa che nemmeno una ogni 2,5 persone lavora o anche che su 100 residenti, meno di 40 contribuiscono a creare ricchezza per tutti. In Germania, dove i tassi di occupazione superano il 75%, il rapporto tra occupati e totale della popolazione residente sale al 52,7%, cioè meno della metà dei tedeschi non lavora per una qualsiasi ragione. Se fossimo ai livelli tedeschi, avremmo oggi 8 milioni di lavoratori in più, quanto a tutti gli abitanti di Sicilia, Calabria, Basilicata e Molise messi insieme; insomma, mezzo Meridione.

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Ora, sarà possibile continuare a registrare tassi di disoccupazione calanti con un’economia italiana in contrazione? La risposta è affermativa, almeno nel breve periodo. I posti di lavoro sono aumentati di 200.000 unità, pur a fronte di un aumento complessivo del pil di appena lo 0,8%. L’anno precedente, quando l’economia italiana era cresciuta dell’1,6%, il doppio, i posti di lavoro netti creati sono risultati di poco inferiori, ossia 190.000. Sembra illogico, ma non lo è. Il mercato del lavoro non si adegua istantaneamente all’andamento dell’economia, ma lo segue con uno sfasamento temporale di diversi mesi. In pratica, nel 2017 l’Italia è cresciuta ben oltre le attese, beneficiando della buona congiuntura internazionale, ma i posti di lavoro non hanno prontamente seguito il trend positivo, anche perché un’impresa, prima di assumere nuova manodopera, vuole verificare che ne abbia la possibilità, attendendo l’evoluzione dei mesi successivi.

Lo stesso dicasi con l’ingresso nella recessione: le imprese non licenzieranno i dipendenti alla prima contrazione della produzione e/o delle vendite o un lavoratore autonomo non chiuderà la propria partita IVA al primo cenno di crisi del fatturato. Serviranno mesi per capire come stiano andando le cose.

Non è tutto. In teoria, più lavoratori potrebbero essere impiegati per partecipare a una produzione minore. Questo accade, ad esempio, con lo spostamento degli occupati verso il settore terziario, i cui tassi di crescita risultano meno dinamici rispetto al settore secondario, ma che per molti suoi comparti si mostra più “labour intensive”, cioè necessita di un uso più intenso di forza lavoro (ristoranti, alberghi, stabilimenti balneari, etc). Prendiamo il periodo 2014-2018. Nel corso di questo quinquennio di ripresa, l’economia italiana si è espansa del 4,8%, mentre il numero degli occupati è cresciuto di 1,1 milioni di unità, ossia del 5%. In un certo senso, il mercato del lavoro è andato un po’ meglio della produzione di beni e servizi (pil), per cui la produttività media di un lavoratore occupato nel mese scorso risultava di poco inferiore a quella di 5 anni fa. La produzione industriale nel periodo è cresciuta perfettamente in linea con il pil, ovvero del 4,7% cumulato e ne consegue che la produttività stagnante o persino in lieve calo non sarebbe dovuta alla crescente terziarizzazione della nostra economia. Di sicuro c’è che questo trend impedisce aumenti salariali, se non marginali, tenendo basso il potere d’acquisto delle famiglie, pur occupate.

Reddito di cittadinanza e quota 100 non bastano

Adesso, però, la creazione dei posti di lavoro potrebbe subire una battuta d’arresto, se gli imprenditori si mostrassero dubbiosi sul futuro a breve dell’Italia. In tanti vorranno capire, ad esempio, l’impatto macro che avranno misure come reddito di cittadinanza e quota 100 sulle pensioni, le quali entreranno in vigore, però, solo da aprile.

Questo significa che il dato del primo trimestre del 2019 non beneficerà di alcun sostegno da parte della legge di Stabilità, ammesso che sia positivo il contributo atteso dalle sue misure. In altre parole, erogare a circa un milione e mezzo di nuclei familiari un sussidio spendibile stimolerebbe, in teoria, i consumi. Ne sarebbero contenti i commercianti, meno gli imprenditori, se per questi ultimi divenisse paradossalmente più difficile trovare nuovi dipendenti, pur in presenza di tassi di disoccupazione stellari al sud, a causa della minore appetibilità che i bassi salari avrebbero per via dell’alternativa del sussidio. E molte imprese approfitterebbero dei posti liberati dai dipendenti più anziani con il pensionamento anticipato, grazie alla quota 100, assumendo persone più giovani, preparati e con stipendi iniziali più bassi, risparmiando sul costo del lavoro.

Tuttavia, affinché queste misure dispieghino i loro effetti positivi, sarà necessario generare un clima di ottimismo, mentre la conferma della recessione in corso rischia di tradursi in un’accentuazione dello scontro politico interno da un lato e con la Commissione europea dall’altro, con la conseguenza che il mondo delle imprese finirebbe per sfiduciarsi sulle reali probabilità di ripresa a breve. Né si può immaginare che le due misure in sé siano capaci di invertire la rotta del pil. Servirebbe potenziare, invece, la “flat tax”, estendendo la platea dei possibili beneficiari (resta il nodo delle risorse) e picconare la burocrazia a carico delle imprese, al contempo attivando i cantieri bloccati delle grandi opere. Parliamo di proclami che si tramandano di governo a governo e che non trovano mai applicazione pratica, con le opposizioni a invocare a ogni giro quanto esse stesse da maggioranza non hanno realizzato.

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