La Germania continua ad essere convinta che il debito pubblico italiano non sia sostenibile e che, a maggior ragione, lo sarà ancora meno dopo il Covid-19. Già nel 2017, l’autorevole ed equilibrato Frankfurter Allgemeine Zeitung, quotidiano che funge da cassa di risonanza per il mondo conservatore tedesco, lo definiva “il rischio più grande per l’euro”. Dalla Bundesbank all’Ifo, sono diversi gli economisti a sostenere che il nostro debito possa essere reso più sostenibile dall’imposizione di una tassa patrimoniale, se non attraverso una vera e propria ristrutturazione.

Il costo della sfiducia nell’Italia: 900 miliardi di maggiore debito pubblico in 20 anni

Parliamoci chiaro. A fine anno, il debito pubblico dell’Italia sarà esploso a circa 2.600 miliardi, mentre il pil sarà sceso sotto i 1.600 miliardi. Chiunque legga queste cifre, anche solo non conoscendo la nostra storia recente caratterizzata da riforme mancate, crescita inesistente e sprechi di spesa, si farebbe un’idea molto negativa sulle capacità di Roma di onorare i suoi prestiti. A Berlino, dove non si va per il sottile, si nota che le casse dello stato italiano sono vuote, ma che le tasche delle famiglie sarebbero piene.

La ricchezza privata italiana sfiora i 10.000 miliardi, di cui per oltre 4.400 miliardi in forma finanziaria. Secondo i tedeschi, la soluzione al problema ce l’abbiamo sotto gli occhi, solamente che non riusciremmo a vederla. Quale? Trasferire risorse dai privati allo stato, tramite una patrimoniale. Facile a dirsi, se non fosse che più volte vi abbiamo scritto quante difficoltà di implementazione sul piano tecnico e politico una simile misura comporterebbe. Inoltre, per quanto eventualmente elevata fosse l’aliquota fissata, trattandosi di un gettito una tantum non abbatterebbe significativamente e né durevolmente lo stock di debito. Insomma, si farebbero più danni che altro.

La strada non percorribile della ristrutturazione

Resterebbe l’opzione della ristrutturazione, anch’essa più facile da proclamare che da attuare.

Tagliare il capitale e/o le cedole in mano ai creditori e/o allungare le scadenze darebbero sollievo allo stato, ma metterebbero in crisi i conti delle banche, dei fondi, delle assicurazioni e delle famiglie detentrici. Il sistema Italia rimarrebbe colpito duramente dallo shock, con il rischio di esplosione delle tensioni finanziarie e di una caduta a catena delle banche, tra cui quelle francesi, molto esposte verso il Tesoro italiano. Sarebbe la fine dell’euro.

Piaccia o meno, non saranno queste le strade percorribili per risolvere il problema del debito pubblico tricolore, il che non significa di certo che agli italiani non potranno essere chiesti e imposti sacrifici a tal fine. Semplicemente, la strada maestra che si è aperta e che rimane da percorrere si chiama “monetizzazione”. Fa specie solo a sentirne parlare, ma è quella che la BCE ha deciso nella sostanza di intraprendere con il potenziamento degli stimoli monetari, in risposta alla pandemia. Tra QE ordinario, straordinario e PEPP, quest’anno gli acquisti di assets nell’area potrebbero arrivare a oltre 1.700 miliardi, qualcosa come il 15% del pil dell’Eurozona.

La soluzione per tagliare il debito pubblico italiano arriva tardi e non sarà di facile attuazione

Germania contro BCE

La Germania si oppone strenuamente a questa ipotesi per il lungo periodo e con la sentenza costituzionale del 5 maggio, Karlsruhe ha messo in guardia Francoforte dagli eccessi. Ma la risposta alla richiesta di chiarimenti sul rispetto del principio di proporzionalità nella conduzione dei programmi monetari è arrivata giovedì scorso, quando il board della BCE ha aumentato di 600 miliardi il PEPP per rispondere meglio alla crisi economica in corso. Come a segnalare che i tedeschi potranno invocare tutti i principi che vogliono, ma al pari degli altri popoli sono sottoposti giurisdizionalmente alla Corte di Giustizia UE per le decisioni che riguardano la sfera monetaria.

L’Italia a fine anno avrà un rapporto debito/pil forse superiore al 160%, ma economie come Francia e Spagna supereranno abbondantemente il 100%, anzi il 120% entrambe. Insomma, Roma avrebbe anticipato nei tempi un percorso che sembrano dover intraprendere alcuni tra i principali partner dell’area. E quando i problemi iniziano a riguardare un po’ troppi stati, non possono risolversi ricorrendo a regole fiscali astratte, per quanto sensatissime. Non a caso, Parigi si è mossa in questa crisi per convincere e costringere Berlino ad accettare una prima forma di mutualizzazione dei debiti con il “Recovery Fund”, mentre la francese Christine Lagarde, dopo lo scivolone di marzo sugli spread, ha compreso benissimo che abbandonare l’Italia – e, in prospettiva, la sua stessa nazione di origine – sui mercati equivarrebbe a celebrare i funerali all’euro.

Come il debito pubblico italiano continua a restare sostenibile grazie alla BCE

Le prossime mosse della BCE

La BCE, così come ogni altra istituzione europea, va avanti per step, date le forti e sempiterne divisioni interne tra stati del nord e quelli del sud. All’inizio fu il “quantitative easing” ad avere fatto stracciare le vesti alla Bundesbank, ma Mario Draghi seppe con sapienza e mediazione uniche e rimpiante costruirsi il consenso necessario per superare le opposizioni dei “falchi”, aprendo la strada a una prospettiva di lungo periodo, se è vero che nemmeno la Federal Reserve, che pure si ritrova a gestire un’economia americana ben più dinamica di quella dell’Eurozona, ha saputo e potuto dimagrire il suo bilancio, tornando all’era pre-crisi.

I BTp, Bonos, Bund, Oat, etc, in pancia a Francoforte verranno tenuti a bilancio fino alla scadenza e – statene certi – reinvestiti per i prossimi anni e decenni. Ciò renderà tali debiti di fatto senza data di scadenza, rinnovati automaticamente e fuori dal perimetro dei mercati finanziari, comprimendo i costi di rifinanziamento degli stock, anche perché tale azione abbasserà nel tempo i rischi sovrani percepiti.

A fine anno, tra il 25% e il 30% del nostro debito pubblico sarà in mano alla BCE.

Poiché scommettiamo che gli acquisti di bond proseguiranno anche nel 2021 e chissà per quanti anni ancora, tale quota è destinata semplicemente a salire, così com’è avvenuto in Giappone, dove la banca centrale detiene pressappoco la metà dello stock. A quel punto, i mercati ragioneranno per sottrazione: debito pubblico totale – debito pubblico a bilancio della BCE. L’inflazione farà il suo corso e deprimerà il rapporto debito/pil in tutta l’area, anche perché prima o poi l’istituto si ritroverà a controllare la curva dei rendimenti, ponendosi obiettivi dichiarati su alcune scadenze, così da tenere i costi di rifinanziamento a livelli compatibili con la sostenibilità dei debiti stessi nel lungo periodo.

Il controllo della curva dei rendimenti è questione di tempo per BCE e Fed

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