Quanto vale il debito pubblico italiano? Poco meno di 2.312 miliardi a fine aprile, in aumento di circa 55 miliardi da inizio 2018, anche se bisogna tenere in considerazione che lo stock tende a crescere più del dovuto nei primi mesi dell’anno, quando il Tesoro fa scorte di liquidità per la rimanente parte dell’esercizio, approfittando della maggiore disponibilità di fondi sui mercati e, quindi, di rendimenti tendenzialmente più bassi. Alla fine del dicembre scorso, in rapporto al pil era al 131,8%, mentre quest’anno, grazie alla ripresa dell’inflazione e a un tasso di crescita reale atteso in area 1,3-1,5%, dovrebbe scendere all’incirca al 130,5%.

C’è un dato, però, di cui dovremmo tenere conto per valutare le passività potenziali totali del sistema Italia: il saldo del Target 2. Il sistema dei pagamenti della BCE per l’Eurozona ha visto esplodere il passivo della Banca d’Italia a 480,9 miliardi di euro alla fine di giugno dai 464,7 di maggio e dai poco più di 426 di aprile. In un paio di mesi, quindi, abbiamo registrato un deterioramento di circa 55 miliardi.

La ristrutturazione del debito pubblico italiano è diventata un’opzione reale 

Di cosa si tratta? Ne abbiamo dato ampia spiegazione in un altro articolo pubblicato di recente. Esso capta i deflussi di capitali e le passività commerciali nei confronti del resto dell’unione monetaria. Si tratta di saldi contabili, destinati a rimanere sulla carta, tranne in un caso, ossia se uscissimo dall’euro. Allora, dovremmo saldare i saldi e pagare istantaneamente i debiti contratti dalla nostra banca centrale verso le altre banche centrali nazionali dell’Eurosistema, con la conseguenza che ci ritroveremmo a sborsare qualcosa come circa il 27% dell’attuale pil. Sommato al 130-131% atteso per fine anno, possiamo anche affermare che il nostro debito pubblico potenziale sarebbe già al 160% del pil, ben al di sopra di quella soglia del 140% individuata anni fa dal Fondo Monetario Internazionale oltre la quale il debito sovrano di un’economia si mostra insostenibile, tranne rare eccezioni.

Dunque, il ritorno alla lira ci costerebbe carissimo già solo per chiudere le posizioni contratte in era euro. Poiché, almeno ad oggi, trattasi di un esercizio più teorico che concreto, l’ampio passivo del Target 2 non dovrebbe terrorizzarci a tal punto da credere che staremmo per perdere il controllo del nostro debito. Esso, però, ci segnala che l’Italia continua a perdere colpi sul piano della competitività con le altre economie dell’area e, in particolare, sul fronte della fiducia degli investitori finanziari. Non si spiegherebbe altrimenti come in un decennio siamo stati capaci di passare da un attivo di 50 a un passivo prossimo ai 500 miliardi. Nel frattempo, abbiamo migliorato la nostra posizione commerciale verso il resto del mondo, anche se in parte per il taglio della domanda interna, che ha compresso consumi e importazioni. Pertanto, il mezzo trilione perduto avrebbe a che fare con la fuga degli investitori europei dall’Italia, ovvero di fondi, azionisti individuali, obbligazionisti, banche e assicurazioni.

Fuga ormai pluriennale dei capitali stranieri

Certo, fanno impressione i 55 miliardi di peggioramento del saldo in due mesi, ma risulta sin troppo facile addebitare al governo Conte un debito, che prima della sua nascita era già salito a 465 miliardi. D’altronde, se siamo passati da una quota di investitori stranieri del 52% nel 2010 a una di appena un terzo (BCE, inclusa) nella detenzione del debito pubblico, significa che, circa 240 miliardi di euro in 7-8 anni sono defluiti, denaro che ha preso il largo dai nostri BTp, nonostante da allora le emissioni siano cresciute, in valore assoluto, di 470 miliardi. Ciò significa che il nuovo debito emesso con la crisi dello spread è stato finanziato essenzialmente dalle banche italiane, che sono arrivate a più che raddoppiare i titoli in loro possesso, attestandosi attualmente sui 340 miliardi di euro complessivi.

Se negli ultimi anni, Bankitalia ha spiegato l’esplosione dei saldi passivi Target 2, sostenendo che fosse legata agli acquisti di BTp realizzati insieme alla BCE con il “quantitative easing”, la rassicurazione è parsa stucchevole, in quanto nel migliore dei casi segnalerebbe al mercato che nessun investitore straniero privato si è mostrato intenzionato ad acquistare titoli di stato italiani, pur approfittando dell’ascesa dei prezzi per via del programma di allentamento monetario. In pratica, gli stranieri avrebbero preso la palla al balzo per liberarsi dei BTp e minimizzare così il rischio Italia in portafoglio. Paradosso vuole che con la fine del QE, i saldi saranno destinati probabilmente ad accentuare la tendenza negativa, dato che sarebbe il mercato a dover finanziare nel 2019 circa il 90% delle emissioni di titoli del Tesoro di Roma e ciò richiederà rendimenti sempre più alti per superare le diffidenze verso il sistema Italia, percepito a rischio crac.

In teoria, già oggi con rendimenti decennali doppi rispetto a quelli spagnoli e 7-8 volte superiori a quelli tedeschi, nonché alla pari con i Treasuries, i nostri BTp dovrebbero attirare fiumi di capitali dall’estero. Se non accade, è solo per via della crescente consapevolezza della complessa situazione finanziaria, economica, politica e sociale dell’Italia, dove il sostegno all’euro non è più scontato nei palazzi del governo e tra la stessa popolazione non si respira più un’aria di conformismo rispetto alle scelte operate a Bruxelles, spesso prescindendo dalla nostra condivisione. Lo spread a 240 punti di questi giorni, di questo passo, si amplierà a livelli ben più alti man mano che la BCE ridurrà i suoi acquisti. E il buco del “debito” di Bankitalia si allargherà, riducendo le probabilità di tornare alla lira e condannandoci a una permanenza nell’euro, pur se sgradita a chi governa, tranne di non mettere in conto un costo abnorme per il recupero di quella sovranità monetaria, da tanti perseguito come obiettivo strategico per riappropriarci del nostro destino, quando il vero ladro di futuro in Italia è stato, è e resta quello stock immenso di debito da oltre 2.300 miliardi di euro.

Debito pubblico, la proposta sovranista anti-spread rischia di farlo esplodere 

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