Il debito pubblico italiano è salito a 2.311 miliardi di euro nel mese di aprile. Lo scorso anno si era attestato al 131,8% del pil, pari a oltre 37.000 euro a carico di ciascun residente sul territorio nazionale, neonati e immigrati compresi. Dal 2007, ultimo anno prima della crisi, risulta esploso di oltre 700 miliardi in valore assoluto e del 30% in relazione al pil. Per contro, il pil pro-capite si è ridotto dell’8% e quello reale del 5,7%. Cosa ancora più asfissiante, il rapporto tra debito e pil non scende sotto il 100% dagli inizi degli anni Novanta.

Nessuna economia avanzata, Giappone a parte, ha vissuto una simile dinamica. Tutto questo, nonostante avanzi primari decisamente inusitati persino in stati solidi come la Germania e che sono arrivati al 4-5% del pil prima della crisi. Si consideri che per la Grecia, i creditori pubblici ambiscono a un 3% per qualche decennio e che persino tra loro si nutre profondo scetticismo sulla sostenibilità di tali surplus sul piano economico e politico.

Debito pubblico italiano, i mercati volevano il governo tecnico

Nonostante il crollo dei rendimenti sovrani negli ultimi 4 anni, in conseguenza del “quantitative easing” della BCE, il rapporto deficit/pil in Italia è rimasto praticamente inalterato e sempre al di sopra del 2%. Questo, mentre abbiamo risparmiato mediamente l’1% del pil in interessi all’anno. Dunque, il risanamento dei conti pubblici non è proseguito con gli ultimi governi, i quali hanno optato per investire gli spazi di manovra consentitici da Mario Draghi per cercare di rinvigorire la crescita economica, con i risultati fallimentari che notiamo.

Le ipotesi di rinegoziazione del debito tricolore

Nasce quasi automatica la domanda negli organismi internazionali, se l’Italia si stia avviando verso una ristrutturazione del debito pubblico ed eventualmente in quali forme. Premettiamo che ristrutturare il debito significa essenzialmente due cose: tagliarlo (“haircut”), similmente a come ha fatto la Grecia nel 2012 con i creditori privati, decurtandolo del 53,5% (107 miliardi di euro); allungarne le scadenze e/o abbassandone i rendimenti (anche questo è un passo compiuto dalla Grecia nel 2012).

Il primo caso appare decisamente più traumatico, in quanto infligge perdite certe agli investitori, tranne che questi non si fossero coperti acquistando “cds”, titoli che assicurano contro il rischio default. E non a caso, essi rendono oggi ai livelli più alti tra le economie avanzate dopo la Grecia, anche se la tensione si è parzialmente sgonfiata dagli oltre 285 punti base di fine maggio ai 204 attuali.

Ora, rinegoziare il debito in mano agli investitori implica forti scossoni finanziari, ovvero l’esplosione dei rendimenti e, dunque, dei costi sui titoli di nuova emissione. Chi ci prestasse denaro dopo l’avvio delle trattative o del semplice annuncio, lo farebbe pretendendo un premio per il rischio nettamente superiore a quello odierno, tale da costringerci a negoziare con un qualche organismo internazionale, come il Fondo Monetario o l’ESM, un maxi-prestito per coprire le scadenze nei successivi tot mesi o anni, evitandoci il salasso fiscale, che finirebbe per fare evaporare i benefici della ristrutturazione stessa.

Debito pubblico italiano, ecco le correzioni tecniche per superare le insidie

Il ruolo della BCE

Sappiamo che la BCE possedeva alla fine di aprile 345 miliardi di BTp, quota destinata a salire a circa 370 miliardi entro la fine dell’anno. Di fatto, entro dicembre Francoforte arriverà a detenere quasi un sesto del debito tricolore, diventando primo creditore, superando persino l’insieme delle banche italiane. Si è discusso a maggio, in sede di trattative per la formazione del governo giallo-verde tra Lega e Movimento 5 Stelle, sulla cancellazione di 250 miliardi di euro di tale debito, ipotesi alquanto strampalata e che ha terremotato i mercati finanziari, scatenando lo spread. Più realistica, per quanto non meno forte, sarebbe l’idea di un accordo più o meno implicito con la BCE per allungare automaticamente la durata dei titoli in scadenza, attraverso la tecnica del “roll over”, in base alla quale, ad esempio, tutti i BTp in possesso dell’istituto verrebbero rinnovati di tot anni, in modo da sgravare l’Italia dalle incombenze più immediate.

Non solo: Francoforte pattuirebbe con Roma rendimenti inferiori a quelli di mercato, così da abbassare il monte-interessi annuale e contribuire al risanamento dei conti pubblici e all’abbassamento del rapporto debito/pil.

Perché la BCE non può cancellare il debito pubblico italiano

C’è un limite in questa operazione: anche superando le forti resistenze politiche in seno all’Eurozona, tra cui quelle certe della Bundesbank, nonché il divieto dello statuto di monetizzare i debiti sovrani, resterebbe il problema di una ristrutturazione alquanto limitata. L’Italia mediamente si trova ogni anno a rinnovare titoli a medio-lungo termine per 250 miliardi di euro, a cui si sommano BoT (scadenze fino a 12 mesi) per altri 150 miliardi. A fronte di tali numeri, i 20-30 miliardi all’anno di rinnovo e allungamento automatici dei BTp in mano alla BCE farebbero poco per abbattere la nostra montagna del debito. E allora, forzando il ragionamento, potremmo immaginare che il combinato BCE-ESM, dietro precise condizioni imposte all’Italia su riforme economiche e risanamento fiscale, si accolli l’intero debito italiano a medio-lungo termine in scadenza per i successivi tot anni, rifinanziandocelo a tassi d’interesse nettamente più bassi di quelli vigenti sui mercati, magari pari a quelli medi dei Bund più uno spread minimo.

Considerando che paghiamo oggi quasi 65 miliardi all’anno per interessi, pari a un rendimento medio di poco inferiore al 3%, ipotizzando che ci venisse consentito di rinnovare tutti i BTp nei prossimi anni alla metà degli interessi e per scadenze lunghe (10-15-20 anni, etc.), risparmieremmo una trentina di miliardi all’anno, pari a quasi il 2% del pil, denaro che servirebbe a non far più crescere il debito in valore assoluto, azzerando il deficit, nonché per abbatterne le dimensioni in rapporto al pil.

In una decina di anni, esso scenderebbe sotto il 100%, immaginando una crescita nominale (pil reale + inflazione) realisticamente del 3%. Sarebbe una rottura delle regole che presidiano la BCE, ma i creditori privati (banche italiane, in testa) si libererebbero man mano dei BTp in loro possesso, creando un cordone di sicurezza attorno all’Italia, circoscrivendone la crisi e forse anche rappresentando l’unica via per tenere il nostro Paese nell’Eurozona, ovvero per rendere davvero irreversibile la moneta unica. Fino a quando uno dei suoi membri più grandi valuterà come possibile l’ipotesi di uscire per superare il mix tra bassa crescita e alto debito, non ci saranno rassicurazioni di Francoforte che tengano. Resta da vedere se l’Italia accetterebbe mai di sottoporsi al “commissariamento” di Bruxelles, un fatto politicamente molto poco sostenibile e scomodo per qualsiasi governo che dovesse accettarlo.

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