Si mostra in calo il petrolio oggi sui mercati internazionali, in attesa che la Federal Reserve renda note le sue decisioni di politica monetaria. Non sono attese novità sui tassi USA, ma resta il fatto che la stretta dell’istituto sia in atto e potrebbe consolidarsi nei prossimi mesi sulle più alte aspettative d’inflazione, a loro volta legate a un mercato del lavoro americano in piena occupazione. Proprio il caro petrolio sta surriscaldando i prezzi, pur a ritmi ancora poco dinamici rispetto al periodo pre-crisi.

Le quotazioni del Brent sono arrivate fin sopra i 75 dollari, quelle del Wti hanno sfiorato i 60, segnando i livelli massimi dalla fine del 2014. In teoria, questi movimenti dovrebbero sostenere l’oro, bene-rifugio per eccellenza contro le tensioni geopolitiche e le avvisaglie d’inflazione. E tra Siria e Iran da un lato, screzi USA-UE-Cina dall’altro e alta tensione tra le due Coree nei mesi scorsi, di motivi per comprare oro non ne sono mancati. Invece, il metallo ha si guadagnato qualcosa, ma restando di poco sopra i livelli di inizio anno, attestandosi in queste ore sui 1.310 dollari l’oncia. Tutto ciò, nonostante il dollaro sia arrivato a indebolirsi del 15% in poco più di un anno.

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Per capire cosa succede e, soprattutto, cosa potrebbe accadere all’oro nei prossimi mesi, dobbiamo passare per l’India. Il sub-continente asiatico va ad elezioni a breve e il BJP del premier conservatore Narendra Modi dovrebbe riscuotere un nuovo successo ai seggi, forte della buona gestione dell’economia negli ultimi 4 anni. Nuova Delhi era sull’orlo di una crisi finanziaria tra 2013 e 2014, quando l’inflazione saliva a due cifre, l’economia arrancava e le partite correnti segnavano un profondo rosso, complice la fuga dei capitali all’estero.

Ancora prima che arrivasse al governo Modi, la Reserve Bank of India dovette alzare i tassi per contrastare la debolezza del cambio, ai minimi storici contro il dollaro, introducendo restrizioni alle importazioni di oro. Tutto questo, mentre il petrolio viaggiava in direzione 100 dollari, soglia superato alla metà del 2014, quando il Brent arrivò a 115 dollari.

L’impatto del caro petrolio sull’India

Ora, l’India è stata fino a quegli anni la prima economia importatrice di oro, superata dalla Cina solo per le restrizioni imposte alle importazioni e finalizzate a tagliare il disavanzo delle partite correnti, che sfiorava il 5% del pil. Venne introdotta la regola dell’80:20, in base alla quale fino alla fine del 2014 era possibile importare oro per un quinto delle quantità esportate. L’immenso stato asiatico è, infatti, un centro di lavorazione dell’oro, che una volta importato viene spesso esportato, oltre che consumato dalla popolazione interna.

Con il tracollo delle quotazioni petrolifere, Nuova Delhi ha ottenuto quel sollievo economico sperato. Essendo un paese importatore di energia, ha visto scendere l’inflazione fino a un minimo dell’1,6% della metà 2017, ha assistito a un’accelerazione della crescita economica e al contempo il suo deficit corrente è crollato allo 0,7% del pil, un settimo di 4 anni prima. Adesso, il rincaro del greggio sta mettendo in moto i meccanismi opposti: l’inflazione sta accelerando sopra il 4%, la crescita regge ancora sopra il 7% annuo, ma la rupia si è indebolita del 5% quest’anno e del 3,5% su base annua. Di questo passo, il disavanzo commerciale tenderà a crescere e nonostante la RBI disponga di riserve valutarie per circa 424 miliardi di dollari, 150 in più rispetto ai livelli posseduti in piena crisi nel 2013, non possiamo escludere che Modi o un eventuale successore, subito dopo le elezioni, cerchi di contrastare il disavanzo commerciale crescente con azioni tese a tagliare le importazioni.

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Petrolio su e oro giù?

Prendiamo l’export: si attestavano a 302 miliardi di dollari nel 2017, meno dei 310 del 2013. Sono diminuite, quindi, sia in valore assoluto, che ancor di più in rapporto al pil. Viceversa, le importazioni indiane continuano a salire: nei primi 3 mesi dell’anno, sono state pari a oltre 130 miliardi, superando di circa 50 miliardi il valore delle esportazioni. Dunque, l’India importa troppo e l’oro è uno dei principali beni acquistati dall’estero. Lo scorso anno, ne è entrato per 855 tonnellate, il 67% in più rispetto al 2016. Nel primo trimestre di quest’anno, invece, si registra un vero crollo, che a marzo ha superato il 50% tendenziale. In tutto, le tonnellate importate sono state meno di 167 tonnellate (7,7 miliardi, ai valori attuali). Di questo passo, non si andrà oltre le 700 tonnellate nell’intero anno, scontando l’accelerazione delle importazioni negli ultimi mesi dell’anno per la festività del Diwali.

Questo è quanto già accaduto. Modi segnala, però, sin dal suo insediamento di non gradire che le famiglie indiane puntino risorse eccessive sull’oro. Ha introdotto uno schema di monetizzazione di almeno parte delle 20.000 tonnellate di oro stimate presenti in India nei templi indù e presso le abitazioni private, anche se con esiti ancora nemmeno minimamente soddisfacenti. E nel novembre 2016, quando ha avviato un’opera di “demonetizzazione”, ritirando dalla circolazione le banconote da 500 e 1.000 rupie, ha dato vita a diversi blitz nelle gioiellerie del paese, intimando ai titolari di non riciclare denaro vendendo oro a potenziali criminali o evasori fiscali. Che approfitti anche del caro petrolio per evitare il ripetersi dell’esperienza di 4 anni fa, disincentivando le importazioni di oro per ridurre il deficit commerciale?

Se così fosse, le quotazioni auree vivrebbero una stagione negativa nei prossimi mesi, visto l’impatto enorme che l’India ha sul relativo mercato per le sue dimensioni e per la spiccata preferenza dei suoi abitanti per questo bene.

Sembra un paradosso, ma più il petrolio dovesse salire, generando inflazione e indebolendo i cambi delle valute emergenti, maggiore il rischio che il governo di Nuova Delhi si muova per colpire la domanda di metallo.

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