Non ci sarà quota 100 dopo il 2021. Il governo Draghi non rinnoverà la sperimentazione triennale voluta dalla maggioranza “giallo-verde” nel 2018 e a decorrere dal 2019. Tuttavia, il rinnovo di Opzione Donna per il 2022 dovrebbe esserci. Accade ormai così sin dal debutto di questa legge, voluta dall’allora ministro del Lavoro, Roberto Maroni, nel lontano 2004. Di anno in anno, ciascun governo calcia il barattolo per il semplice fatto che la misura costa poco, autofinanziandosi come vedremo.

Opzione Donna consente alle donne lavoratrici di andare in pensione a 58 anni di età (lavoratrici dipendenti) o 59 anni (lavoratrici autonome), purché in possesso di almeno 35 anni di contributi versati.

I requisiti devono essere stati maturati entro la fine dell’anno precedente alla richiesta. Tuttavia, l’assegno sarà liquidato totalmente con il metodo contributivo. A differenza del retributivo, che lega l’importo della pensione alla retribuzione media dell’ultimo periodo del lavoratore, qui il legame è con i contributi versati. Insomma, prendi ciò che hai versato. Chiaramente, il montante è rivalutato di anno in anno sulla base della crescita del PIL nominale nel quinquennio precedente.

Il metodo contributivo risulta generalmente meno favorevole al lavoratore del retributivo. Nel caso di Opzione Donna, l’importo può arrivare ad essere fino al 30% in meno, stando alle stime. Le lavoratrici più colpite sono quelle che fino al 31 dicembre 1995 avevano maturato almeno 18 anni di contributi. Esse avrebbero diritto al calcolo retributivo per gli anni lavorati fino al 31 dicembre 2011. Tuttavia, optando per Opzione Donna l’importo dell’assegno è calcolato interamente con il contributivo.

Opzione Donna, cosa accade alle lavoratrici dal 2022

Se Opzione Donna fosse prorogata anche per il 2022, però, accade che le lavoratrici dipendenti che potranno beneficiare della misura dovranno avere compiuto 58 anni entro quest’anno. Le autonome 59. Questo significa che le prime dovrebbero essere nate non dopo il 1963 e le seconde non dopo il 1962. Ebbene, parliamo di persone che alla fine del 1995 avrebbero avuto rispettivamente minimo 32 e 33 anni, troppo pochi per avere maturato 18 anni di contributi.

A stento, ci arriverebbero le lavoratrici autonome nel caso in cui avessero iniziato a lavorare e versare contributi all’età di 15 anni e ininterrottamente fino alla metà degli anni Novanta.

Dunque, già a partire dall’anno prossimo verranno sostanzialmente meno coloro che risulterebbero le più danneggiate da Opzione Donna. Nessuna o quasi delle richiedenti avrebbe, infatti, ormai i requisiti per accedere al calcolo misto, con il metodo retributivo fino al 2011. A meno che per Opzione Donna non optassero lavoratrici di età superiore ai 58-59 anni di cui sopra. Ad esempio, una sessantenne che abbia maturato il requisito dei 35 anni di anzianità contributiva solo quest’anno. Ma parliamo di casi sporadici, anche perché molte di loro avrebbero titolo per accedere all’Ape Social con 63 anni di età. E l’assegno non sarebbe calcolato interamente con il contributivo.

In altri termini, più passano gli anni e più si accorciano le distanze tra l’assegno percepito da chi va in pensione con Opzione Donna e quello di chi ha maturato i requisiti per altre soluzioni. Certo, al di là dell’importo in sé bisogna tenere conto che si andrebbe in pensione fino a un massimo di 8-9 anni prima dell’età ufficiale e di 6-7 anni e 10 mesi rispetto alla pensione anticipata.

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