Questo inizio di 2023 somiglia drammaticamente, per certi versi, ai primi giorni del 2020. Oggi come allora, i contagi da Covid in Cina sono fonte di preoccupazione per il resto del mondo. Ufficialmente, sono poche migliaia al giorno le persone infettate dalla pandemia, ma secondo la Commissione Nazionale per la Sanità, solamente tra l’1 e il 20 dicembre sarebbero stati contagiati 250 milioni di cinesi. Praticamente, ad un ritmo di oltre 12 milioni al giorno. Tantissimi anche per un paese immenso da 1,4 miliardi di abitanti.

Il rischio stavolta è che Pechino involontariamente abbatta quel che rimane della globalizzazione, uscita ammaccata da due anni di intensa pandemia prima e dalla guerra tra Russia e Ucraina subito dopo.

E dire che il governo cinese ha allentato da poche settimane le restrizioni anti-Covid proprio per difendere il proprio interesse nazionale, salvaguardando i processi sottesi alla globalizzazione produttiva e finanziaria. A novembre, diverse città erano state teatro di proteste e scontri tra manifestanti ed esercito sulla politica del “Covid zero”. Decine di migliaia di persone, specie giovani, avevano esternato la propria frustrazione per la rigidità di regole come la quarantena e l’ospedalizzazione forzata al verificarsi anche solo di pochissimi casi in un’area urbana estesissima e popolosa.

Allentamento restrizioni anti-Covid

Queste scene di rara insofferenza popolare verso il potere politico centrale hanno impressionato il presidente Xi Jinping, che da poco aveva ottenuto il terzo mandato dal XX Congresso del Partito Comunista. Inoltre, il mondo del business inviava segnali chiari di preoccupazione: la politica del Covid zero minaccia la supremazia della Cina nelle catene di valore. I numerosi ed estesi lockdown hanno interrotto la produzione di intere filiere, riducendo l’offerta di beni nei mercati di sbocco (Europa e Nord America, anzitutto) e facendone esplodere i prezzi.

Praticamente, anche solo pochissimi contagi in Cina sono stati capaci di mettere in ginocchio l’economia occidentale tra alti tassi d’inflazione e carenza diffusa di beni.

La globalizzazione ne è uscita malconcia. Non c’è multinazionale che non abbia preso a pretesto la guerra russo-ucraina per rivedere i propri piani produttivi. A tale proposito, si parla di “reshoring”, vale a dire di riportare le fabbriche in patria o nelle vicinanze per non rischiare più di vedersi interrotta la produzione a causa di rischi geopolitici o di avvenimenti imprevisti in luoghi lontanissimi dai mercati di sbocco.

La Cina è consapevole di tale rischio e ha allentato le restrizioni anti-Covid per correre ai ripari. Il 26 dicembre scorso, ha rimosso anche le limitazioni ai movimenti internazionali, avallando il ritorno ai viaggi da e per la Cina. Il fatto è che non aveva immaginato un’esplosione dei contagi come quella in corso. Tant’è che l’Unione Europea è giunta a un accordo per testare i viaggiatori in arrivo dalla Cina. L’Italia aveva anticipato il resto del continente, seguendo l’esempio degli Stati Uniti. Pechino non l’ha presa bene, parlando di “discriminazione” e minacciando ritorsioni.

Globalizzazione a rischio con boom contagi in Cina

Il punto è che il boom dei contagi rischia di riproporre le criticità che la Cina voleva rimuovere con l’abbandono dei lockdown rigidi. La globalizzazione non può resistere ancora a lungo a chiusure e carenza di offerta. Ci sono interi comparti travolti in questi anni di pandemia. Uno è quello automobilistico. Basta recarsi in una qualsiasi concessionaria e, se va bene, i tempi di attesa per un’auto nuova sono di sei mesi. Lo stesso vale per mobili, elettrodomestici, elettronica di consumo. La produzione risulta insufficiente e i consumatori devono arrangiarsi e spendere molto più di qualche anno fa.

La relocalizzazione produttiva può essere una buona notizia per le economie avanzate dell’Occidente. Sarebbero rimpatriati molti posti di lavoro e torneremmo a produrre in loco beni necessari alla nostra sicurezza sanitaria, alimentare e militare.

L’altra faccia della medaglia è l’aumento dei costi. La globalizzazione non è stata un capriccio. Essa ha reso possibile produrre a basso costo, consentendo praticamente a tutti i consumatori di acquistare qualsiasi bene e servizio a prezzi accessibili. Tutto questo verrebbe parzialmente meno con il “reshoring”. La massificazione dei consumi cederebbe il passo ad una maggiore segmentazione del mercato sulla base della disponibilità di reddito. Abbandonare la Cina dalla sera alla mattina avrebbe i suoi costi. Ed è bene saperlo.

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