I negozi devono restare chiusi la domenica e negli altri giorni festivi? L’Italia si divide e la proposta del ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, rinfocola una polemica che puntualmente si presenta a ogni ricorrenza, quando il mondo del commercio si trova dinnanzi al dilemma se tenere aperti gli esercizi, fosse anche il giorno di Natale o Pasqua, oppure chiudere e garantire il riposo ai dipendenti. Libertà contro regolamentazione, business contro diritti. Il tema è diventato spinoso e complesso. Era il 2012, quando l’allora governo Monti varava il decreto “Cresci Italia”, con il quale liberalizzava del tutto gli orari di apertura dei negozi.

Unico caso in Europa, necessario per stimolare la crescita economica italiana, almeno nelle intenzioni dell’esecutivo.

Lavoro nei festivi e di domenica addio? Di Maio si impegna per il popolo degli “invisibili”

Nella scorsa legislatura, già il Movimento 5 Stelle si era fatto portavoce di una proposta di legge, approvata alla Camera e rimasta nel cassetto al Senato, che prevedeva la restrizione alla libertà del commerciante: sui 12 giorni festivi nell’anno, in almeno 6 bisogna chiudere. Dunque, almeno in metà delle ricorrenze dovrà garantire riposo ai lavoratori. Ad essere oggetto di queste misure sarebbero fino a 3 milioni di dipendenti nel mondo del commercio. Complessivamente, però, il lavoro domenicale riguarderebbe fino a un massimo di 3,5 milioni di persone. Bisogna considerare, infatti, anche il personale sanitario (medici, infermieri, etc.), quello addetto alla pubblica sicurezza (carabinieri, poliziotti, militari, etc.) e altri.

Esistono diversi livelli di discussione sul tema. Si potrebbe eccepire la natura non puramente materiale del lavoro, quella necessità di garantire al dipendente diritti, riposo, godimento degli affetti familiari in giorni molto particolari per la nostra cultura, il riconoscimento di una dimensione umana e non solo economica. Ma abbassando il livello del confronto a più concrete questioni di bottega, i ragionamenti cambiano.

E’ senz’altro giusto lasciare che sia il singolo negoziante a decidere quando e in quali orari restare aperto, in base alla sua convenienza. Nessuno meglio di chi gestisce un esercizio commerciale sa quando potrà pure chiudere e quando, invece, le vendite in uno o più festivi potrebbero recare benefici per l’attività. Molto dipende dalla tipologia merceologica e dalla location del negozio. Per un bar, ad esempio, restare aperto la domenica o a Natale appare vitale, molto meno probabilmente per un negozio di abbigliamento. Certi consumi sono rinviabili, altri connaturati proprio alla singola festività.

Piccoli negozi con Di Maio

Che la questione sia complessa lo dimostra l’avversione da un lato di consumatori e Federdistribuzione all’ipotesi del governo di varare un giro di vite contro le liberalizzazioni degli orari di apertura e il plauso dall’altro di sindacati e commercianti. Ma come, proprio coloro che dovrebbero battersi per la propria libertà di decidere se e quando chiudere non trovano di meglio che sostenere l’iniziativa di Di Maio? In effetti, le divisioni svelano il contrasto di interessi tra grande distribuzione e piccoli esercizi. Tenere aperti la domenica e nei giorni festivi non sembra sempre un grande affare per il commercio italiano, eppure sono in tanti, piccoli e grandi esercenti, ad approfittare della libertà normativa loro concessa. Come mai? La questione è semplice: se i centri commerciali restano aperti tutti i giorni dell’anno, il solo modo per resistere o limitare i danni è di imitarli.

Negozi chiusi per le feste, la proposta di Di Maio si scontra con gli interessi degli italiani 

E allora, sorge il dubbio che l’apertura dei negozi nei festivi stia beneficiando solamente la grande distribuzione, mentre potrebbe non comportare alcun beneficio netto al commercio minuto. Non a caso, da Confcommercio spiegano che si tratterebbe solamente di spalmare lo stesso fatturato su più giorni dell’anno.

Se così fosse, a crescere sarebbero solo i costi, visto che i dipendenti dovranno essere retribuiti complessivamente di più e che altre maggiori spese (luce, acqua, etc.) graverebbero sul bilancio annuale. La mossa sarebbe inutile, dunque, ma molti commercianti troverebbero ancora più negativo tenere chiuso, rischiando di perdere clienti in favore dei centri commerciali, la cui apertura sempre garantita avrebbe mutato anche i costumi degli italiani, che a frotte ne approfittano per trascorrervi in famiglia qualche ora la domenica o persino nei giorni di festa.

Viste così le cose, se Di Maio riuscisse nell’intento di restringere le maglie larghe della libertà di apertura dei negozi, finirebbe per colpire le grandi catene e per dare sollievo ai piccoli negozi. Non è detto che l’effetto netto complessivo sia positivo per l’economia. In fondo, tutto fa brodo per i consumi. Molti vengono semplicemente spalmati in più giorni, ma sono tante le attività che dipendono per la gran parte del loro business proprio dall’apertura domenicale e nei festivi. Si pensi ai bar, alle ludoteche, ai ristoranti e pub dislocati presso i centri commerciali e che confidano nel tempo libero degli italiani per fatturare.

Difesa (inutile) del piccolo commercio?

Per il resto, nessun decreto troverà mai la soluzione ottimale. Si potrebbe eccepire, ad esempio, che non esista il diritto di prendere il caffè al bar o di andare al cinema la domenica o a Natale, che le feste sarebbe opportuno trascorrerle in famiglia e non al ristorante, etc. Anche i dipendenti di queste tipologie commerciali sono lavoratori con diritti e famiglie, ma la loro condizione economica è legata proprio alla capacità delle attività di essere attive proprio quando la generalità degli italiani riposa e gode di tempo libero o è in vacanza. E se parlassimo con un commerciante, ci spiegherebbe molto probabilmente come non sia del tutto e sempre vero che aprendo 7 giorni su 7 anziché 5 o 6, le vendite settimanali restino uguali.

Alcuni italiani si ritrovano a fare acquisti grazie al fatto di disporre di tempo libero e di scorgere un negozio aperto. Quanto di tutto questo faccia pil non è certo, ma il problema che emerge nel dibattito sembra non riguardare in sé solo i diritti dei lavoratori, quanto l’utilizzo di una maggiore regolamentazione per tutelare il piccolo commercio in profonda crisi, anche d’identità.

Tuttavia, pensare che nell’era di internet e dello shopping online siano queste le risposte definitive a problemi di natura storica sarebbe risibile. I piccoli commercianti sono noti, ad esempio, per ostacolare ancora oggi, nell’anno di grazia 2018, la piena liberalizzazione dei saldi, restando ancorati a un’idea vecchia della tempistica degli acquisti, quando ormai sono milioni gli italiani a comprare di tutto con un semplice clic del mouse. E ogni estate, così come ogni gennaio, ci ritroviamo a commentare i dati deludenti della stagione dei saldi per ammissione degli stessi addetti ai lavori. Anche in questo caso, la paura dei più piccoli consiste nell’essere divorati dai grandi nel caso in cui fossero liberalizzati gli sconti lungo tutto l’anno. Un ragionamento che non trova più alcuna giustificazione, visto che ciò sta già accadendo inesorabilmente. Costringere alla chiusura dei negozi la domenica e nei giorni festivi, dunque, non riporterà il piccolo commercio agli anni d’oro degli esercizi pieni di clienti giubilanti. Piaccia o meno, la società si è trasformata e non sempre esiste spazio per tutti al passaggio tra un’era all’altra.

Saldi invernali nell’era Amazon hanno senso o sono ottusità corporativa?

[email protected]