Fare la storia con i “se” è un esercizio inutile, oltre che difficile. Per quel che può servire, il Centre for European Politics, un think-tank tedesco, ha cercato di capire come sarebbero andate le principali economie dell’Eurozona, nel caso in cui fossero rimaste con le rispettive monete nazionali. I risultati sono stati a dir poco clamorosi, anche perché a pubblicarli non è certo un istituto sospettabile di avercela con i tedeschi o con l’euro. La Germania avrebbe guadagnato 1.900 miliardi di euro in più di ricchezza rispetto allo scenario in cui si fosse tenuta il marco, qualcosa come 23.000 euro in più per ciascun tedesco, più dei 21.000 euro pro-capite di cui avrebbe beneficiato l’Olanda tra il 1999 e il 2017.

La crisi dell’Area Euro è grave come quella del 2011?

La ricerca ha preso in considerazione i tassi di produzione della ricchezza di economie simili per tendenze nell’era pre-euro. La Germania è stata accostata a paesi come Bahrein, Giappone e Regno Unito, mentre l’Italia è stata accostata a Israele. Ebbene, proprio il nostro sarebbe stato il paese più danneggiato dall’euro, in quanto con la lira avremmo prodotto qualcosa come 4.300 miliardi di maggiore ricchezza, 74.000 euro in più per ogni italiano e per un dato cumulato. Anche la Francia ci avrebbe perso, ma meno dell’Italia, con una ricchezza pro-capite più bassa di 56.000 euro. Clamoroso il dato sulla Grecia, che nonostante il crollo dell’economia dal 2008, vanterebbe una maggiore ricchezza pro-capite di 190 euro rispetto al caso in cui fosse rimasta con la dracma.

Per intenderci, e sempre che lo studio abbia un senso, l’Italia avrebbe generato la media di quasi 220 miliardi di euro di ricchezza in meno all’anno sotto l’euro, mentre la Germania 100 in più. Contrariamente a quanto ci viene propinato dai difensori dell’euro a Bruxelles, non sarebbe affatto vero che la moneta unica abbia beneficiato tutti gli stati membri e certamente non in egual misura.

Anzi, nonostante la Germania capeggi il gruppo degli stati del centro-nord contrario ad aiutare gli stati del sud in difficoltà e che si oppone alla condivisione di rischi e oneri nell’area, propugnando il rigore fiscale contro presunti scialacquii dei denari pubblici tra gli stati del Mediterraneo, sarebbe proprio la principale beneficiaria dell’unione monetaria.

L’euro divide nord e sud

Ora, lo studio e i suoi risultati sono in sé molto opinabili, perché nessuno ci può garantire che un’economia sarebbe cresciuta fuori dall’euro allo stesso ritmo di quelle a sé simili e che magari si trovano a migliaia di chilometri di distanza, dipendendo la performance da fattori non sempre riconducibili all’appartenenza o meno a una data area monetaria, come il grado di apertura commerciale, di libertà economica, il livello di tassazione, di efficienza della macchina statale, dalle infrastrutture, la legislazione, etc. Tuttavia, appare indubbio come l’Italia, pur con tutte le criticità che riguardano proprio i fattori suddetti, si sia incartata da anni in una sorta di circolo vizioso tra performance economica negativa e deterioramento fiscale, aggravato dalla cornice poco chiara e credibile dell’euro, per cui a una moneta unica non corrisponde un’unica politica fiscale e, quindi, nemmeno una condivisione dei rischi.

Perché il Sud Europa si è indebolito con la crisi e ha accentuato le distanze con il nord

Basterebbe guardare ai rendimenti sovrani per capire come la ricchezza nell’area tenda sempre più a polarizzarsi, beneficiando in misura crescente economie come la Germania. Berlino può indebitarsi da anni a costi mediamente nulli, negativi fino alle scadenze medio-lunghe e ancora può emettere Bund a 10 anni riconoscendo agli investitori un rendimento di poco superiore allo zero, quando per un omologo BTp l’Italia deve offrire non meno del 2,75%.

Certo, per gran parte lo spread è il risultato di conti pubblici profondamente diversi, con la Germania a chiudere i bilanci in attivo sin dal 2014, riuscendo nell’impresa di tagliare il debito pubblico anche in valore assoluto, mentre il rapporto debito/pil in Italia supera ancora il 130% e tende solo lentamente a ridursi, a causa della bassa crescita.

Resta il fatto che con l’euro, diventa difficile per le economie stagnanti rilanciarsi, non potendo avvalersi del riallineamento dei tassi di cambio. E questo rende sempre meno probabile il varo delle riforme in assenza di crescita, comportando spesso costi sociali nel breve termine. Da qui, il “loop”. La Germania, anziché contribuire alla risoluzione dei nodi strutturali rassicurando i mercati con l’istituzione di meccanismi automatici di sostegno capaci di prevenire attacchi speculativi, al contrario segnala di puntare ad abbandonare a sé stessi gli stati in difficoltà, qualora questi non accettassero di adempiere alle previsioni fiscali contenute nel Fiscal Compact da un lato e nell’OMT della BCE dall’altro, quest’ultimo un piano di aiuto condizionato, appunto, alla sottoscrizione di un memorandum d’intesa da parte del governo richiedente. Insomma, chi è in affanno anche, se non soprattutto, per via delle inefficienze dell’euro sarà costretto ad annaspare sempre più o a subire il crescente deterioramento delle proprie condizioni finanziarie per effetto della sfiducia dei mercati; perché centrare il pareggio di bilancio quando si è in recessione o tutt’al più in stagnazione quando si emette debito in una valuta non controllabile e non rispondente ai propri fondamentali è un esercizio assai improbabile, a meno di non mettere in conto un tracollo economico alla greca. E qualcuno ritiene a Bruxelles che quella sia la strada.

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