La banca centrale egiziana ha comunicato ieri di avere lasciato fluttuare per la prima volta liberamente la lira sul mercato dei cambi, annunciando al contempo un’asta a un tasso di 13 contro un dollaro, segnalando una svalutazione istantanea di oltre il 32%, rispetto al cambio ufficiale vigente fino a ieri mattina di 8,8, dopo che già a febbraio era stata decisa una prima svalutazione del 13%, ma mantenendo il “peg” con il biglietto verde. Lo scivolone sul mercato è stato ancora più brusco dopo l’annuncio, dato che il rapporto tra lira e dollaro è crollato fino a 14,14, implicando un deprezzamento della valuta locale di circa il 38%.

Per frenare l’impatto della libera fluttuazione sui cambi, la stessa banca centrale ha alzato i tassi d’interesse di 300 punti base. Considerando che sul mercato nero, un dollaro è stato scambiato nei giorni scorsi contro 16,5-18 lire egiziane, è probabile che il nuovo equilibrio sarà trovato a metà strada tra questo rapporto e quello ufficiale fisso vigente fino a ieri, ovvero in area 13-14. (Leggi anche: Crisi Egitto, svalutazione lira imminente)

Lira egiziana troppo forte al cambio fisso

Perché Il Cairo ha svalutato di fatto la lira? Il governo ha dovuto prendere atto della realtà. Il precedente cambio fisso, pur svalutato del 13% nel febbraio scorso, era troppo forte per i fondamentali dell’economia egiziana, non sostenibile, come segnalano le riserve valutarie, quasi dimezzate dalla cacciata del presidente Hosni Mubarak, scese a soli 19,5 miliardi di dollari.

Il presidente Al Sisi, che deve fronteggiare all’interno del paese la minaccia islamista, è stato in grave difficoltà negli ultimi mesi, man mano che le distorsioni provocate da un cambio forte si palesavano nel deterioramento delle condizioni economiche. In queste settimane, il simbolo della crisi egiziana è stata la carenza dello zucchero, che ha fatto scattare nel governo l’allarme Venezuela. (Leggi anche: Crisi Egitto in stile Venezuela, segni di carenza di cibo)

 

 

Gli effetti deleteri di un cambio forte

Il paese sudamericano continua ad ostinarsi a mantenere un cambio fisso tra bolivar e dollaro, incurante degli effetti deleteri sulla propria economia.

Ma un cambio eccessivo (quello ufficiale, ormai quasi in disuso a Caracas, è oltre 150 volte più elevato di quello vigente sul mercato nero) determina l’impossibilità per le imprese locali di reperire dollari sufficienti per importare beni e servizi dall’estero, perché per la legge della domanda e dell’offerta, quando un bene – in questo caso, la valuta locale – è troppo costoso, nessuno o in pochi lo comprano. Ergo, minori esportazioni e importazioni troppo alte, non coperte da altrettanta disponibilità di valuta estera.

La carenza di beni e servizi è la prima grande avvisaglia, che un cambio troppo forte e slegato dalle forze del mercato, provoca. La seconda è il sorgere di un mercato nero del cambio, visto che il tasso ufficiale non viene più considerato credibile e conveniente per le imprese e i consumatori locali. Il tasso che qui vi si forma costituisce un riferimento per valutare le distanze che si creano tra mercato ufficiale e quello reale. Man mano che queste crescono, si ha il sintomo di una malattia sempre più grave, che se non fronteggiata in tempo, come ha fatto ieri la banca centrale egiziana, degenera velocemente. (Leggi anche: Occhio all’incognita dei cambi fissi)

Cambi fissi insostenibili, qualche esempio

La terza conseguenza di un cambio forte è l’esplosione dell’inflazione. In Egitto, era già al 14%, non altissima, ma nemmeno bassa. In Venezuela, è stimata intorno al 500% e dovrebbe avviarsi al 1.500% l’anno prossimo. Il boom dei prezzi è provocato dalla carenza dell’offerta e dal fatto che le imprese e i commercianti fissano i prezzi, non più considerando il tasso ufficiale, bensì quello “reale” vigente sul mercato nero.

Perché i governi di alcuni paesi, come l’Argentina dell’era Kirchner o il Venezuela “chavista” ignorano tali segnali e non liberalizzano il cambio, come ha fatto due anni fa la Russia in piena tempesta finanziaria? Le risposte possono essere diverse, ma riassumibili in due: temono che la conseguente svalutazione del cambio porti a un’impennata dei prezzi e a un aumento del malcontento popolare; hanno paura degli effetti di una maxi-svalutazione sulla sostenibilità del debito estero, che essendo contratto in valuta straniera “pesante”, diverrebbe di colpo più costoso. (Leggi anche: Crisi Venezuela, Maduro inseguito dalla folla – video – )

 

 

Il “peg” saudita fa eccezione, per ora

Senonché, come dimostra il Venezuela, l’inflazione tende ad impennarsi rapidamente proprio sotto un cambio eccessivo per la carenza dell’offerta e la fissazione dei prezzi interni con riferimento al cambio illegale, mentre il debito diventa ugualmente insostenibile, man mano che le riserve valutarie diminuiscono e che l’economia nazionale tracolla.

C’è un altro esempio attuale di economia con cambio fisso o “peg” troppo forte: l’Arabia Saudita. Da 31 anni, Riad aggancia il rial al dollaro al tasso di 3,75. Con la crisi delle quotazioni del petrolio, più che dimezzatesi in due anni, l’economia del regno ha perso grossa parte delle sue entrate fiscali, dipendenti dai beni energetici per l’80%, tanto che lo scorso anno ha registrato un deficit pubblico di quasi il 15%, pari a 98 miliardi di dollari. Tuttavia, nel paese non vi è traccia di carenza di beni o di prezzi fuori controllo, per il semplice fatto che la banca centrale deteneva all’inizio della crisi circa 730 miliardi di dollari in riserve valutarie, intaccate ancora solo per circa 150 miliardi. In sostanza, i sauditi hanno tutto il tempo per attendere una risalita dei prezzi petroliferi, senza che ciò provochi l’insostenibilità del cambio fisso. (Leggi anche: Arabia Saudita, boom di attese per fine del “peg”)

In generale, quale lezione possiamo ricavare dagli ultimi accadimenti in fatto di “peg”? I cambi fissi non sono in sé una minaccia all’economia di chi li adotta, purché siano legati ai fondamentali.

Nemmeno un cambio eccessivamente debole sarebbe sostenibile a lungo, come lo scorso anno ha dimostrato traumaticamente persino la ricca Svizzera. Quando il cambio viene slegato dalle forze del mercato sottostanti, si mettono in moto meccanismi (eccessivi afflussi o eccessivi deflussi), che destabilizzano l’economia nazionale. Ne consegue, che i “peg” di successo non possono che essere fissati bilateralmente, ovvero tramite accordi tra due banche centrali a loro sostegno (vedi Danimarca) e tra paesi con fondamentali e trend economici molto simili.