Mancano più o meno sei settimane alla fine dell’anno e non sappiamo ancora quali saranno le regole di bilancio dal 2024. Benvenuti nell’Unione Europea dei burocrati! Germania e Francia stanno trattando sul nuovo Patto di stabilità e l’Italia, anziché accettare una riforma peggiorativa dal suo punto di vista, minaccia il veto. In assenza di correzioni, torneremo alle vecchie regole: limite massimo del 3% sul PIL per il deficit e del 60% per il debito pubblico. Peccato che al momento neppure l’austera Germania centrerebbe questi criteri.

E vale la pena di chiedersi quale senso abbiano regole fiscali alle quali in pochi tra i paesi membri riescano a tendere anche in una prospettiva di lungo periodo. Ad esempio, non è credibile immaginare che la stessa Francia possa passare da qui a qualche decennio da un rapporto debito/PIL superiore al 110% al target del 60%.

Draghi lancia l’allarme crescita

Il vero problema è che l’Europa si perde in chiacchiere inutili e non vede quale sia il suo più grande problema. Un suggerimento le è arrivato pochi giorni fa dall’ex premier e già governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi. Nel corso di un’intervista al Financial Times, ha evidenziato come il gap di crescita economico tra Europa e Stati Uniti sia raddoppiato nell’ultimo quindicennio rispetto ai trenta anni precedenti. E le cose stanno, purtroppo, esattamente così: il PIL reale negli Stati Uniti crebbe in media del 3,1% tra il 1978 e il 2007 contro il 2,3% di quella che oggi conosciamo come Eurozona. Ma dal 2008 in avanti, mentre gli Stati Uniti sono cresciuti in media dell’1,8%, l’Eurozona solo dello 0,8%. Il divario si è ampliato.

Come sta reagendo Bruxelles a questo impoverimento relativo dell’Europa? Aumentando la pressione burocratica interna sulle imprese e devastando il PIL con politiche ambientali folli, oltre che inefficaci. Il Next Generation EU varato in piena pandemia è stato concepito più come un modo per calmare i mercati circa la reazione comune alla crisi, che non come una strategia di lungo periodo.

Il Patto di stabilità in sé contiene una visione corretta sulla politica fiscale. Essa non può essere impostata sempre sui deficit di bilancio. L’idea è che la crescita non la fanno i debiti. Giustissimo. Manca, però, il ragionamento conseguenziale: come spingere la crescita dell’intera area?

Manca una visione europea sul futuro

A parte le sacrosante riforme di cui i commissari parlano (a vuoto) da decenni, ci sono gli investimenti pubblici a sostegno sia della transizione energetica che della digitalizzazione e dell’accorciamento delle catene di produzione, vale a dire per favorire il rimpatrio di pezzi di industria. Ma essi risultano possibili solamente nei paesi in cui esistono margini di manovra fiscali, essenzialmente la Germania e qualche alleato del Nord Europa. I famosi aiuti di stato rischiano di ampliare le distanze tra economie del continente, rendendo ancora meno facile la convivenza nell’euro.

Non esiste alcuna discussione su tutto questo. I governi continuano ad azzuffarsi sul Patto di stabilità, come se il loro problema numero uno fosse il debito e non la penuria di crescita. E l’aumento del primo deriva in buona parte dalla seconda. A ciò si aggiunge il problema emergenziale demografico, che rischia da qui a pochissimi anni di fermare del tutto l’Europa. Anche su questo aspetto i governi tacciono. E’ diventato ormai un tabù voler incentivare le nascite, ma d’altra parte appare ridicola l’idea di sostenere l’economia a colpi di sbarchi clandestini senza che si abbia modo di selezionare gli ingressi per favorire la manodopera di cui abbiamo bisogno.

Patto di stabilità unica ossessione europea

Non esiste un’area del pianeta in cui il bilancio dello stato dipende da astrusità mentali quali l'”output gap“.

In Europa la politica è stata rimpiazzata del tutto dalla tecnocrazia e i risultati sono evidenti. Siamo cresciuti meno dell’1% in media in anni di tassi a zero ed euro debole. Non appena abbiamo rialzato i tassi, è arrivata la crisi. Il rimbalzo post-Covid si è esaurito, mentre negli Stati Uniti il PIL è cresciuto del 4,9% nel terzo trimestre. Non sarà il caso di cambiare registro alle riunioni intergovernative di Bruxelles?

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